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giovedì 10 dicembre 2009

Le sventurate avventure di Marco Brambilla - Racconto completo


Ecco a voi il racconto finito e completo che abbiamo deciso di titolare

"Le sventurate avventure di Marco Brambilla".


Siamo curiosi di conoscere i vostri pareri
e commenti sul nostro scritto.

Buona lettura!

Gli scrittori_improvvisati


Capitolo Uno

Era una mattina uggiosa nella periferia di Milano. L’alba era da poco passata e l’umidità tipica d’inizio primavera, quando ancora c’è quell’aria fredda e invernale, penetrava nelle ossa di giovani e anziani. Alcune auto correvano svogliate sull’asfalto per una nuova, noiosa giornata di lavoro.
Ma quello era un giorno particolare per Marco Brambilla perché sarebbe dovuto andare al suo primo colloquio di lavoro: cameriere e barista in una trattoria fuori Milano. Trovò quel posto grazie ad uno stage con la scuola, l’Istituto Professionale Carlo Porta. Questo era il suo ultimo anno e voleva avere già un lavoro per quando non avrebbe più dovuto studiare. Marco era in terza BS e non era dotato di una grande intelligenza, anzi era piuttosto scemo, nonostante non fosse mai stato bocciato durante la sua carriera scolastica. Era un ragazzo dai capelli castano chiaro, come gli occhi: in realtà era una persona abbastanza anonima al primo impatto. Ma al Carlo Porta, tutti gli alunni e gli insegnanti avevano almeno una volta sentito parlare di lui: era molto ingenuo e si faceva fregare dalle persone spesso e con molta facilità. Per questa sua mancanza, era preso di mira da professori e studenti.
L’anno precedente un compagno gli aveva offerto una merendina.
- La macchinetta me l’ha data per sbaglio, a me non piace. Tienila – gli aveva detto.
In realtà il ragazzo, con i suoi amici, aveva messo del lassativo dentro la merenda. Marco aveva accettato entusiasta quel regalo così inaspettato. Per poi pentirsene amaramente quando trascorse tutto il pomeriggio in bagno. Si possono immaginare le derisioni del giorno dopo sull’accaduto.
Il possibile datore di lavoro aveva proposto a Marco di fare il colloquio via webcam. Ma il giovane non era pratico di Internet e dei computer in generale. Riusciva a malapena ad accendere il monitor e quindi rifiutò l’offerta per potersi incontrare di persona con il padrone della trattoria. Basti pensare che quando frequentava le scuole medie, durante la prima lezione di informatica, chiese al professore il modo in cui si accende un computer.
- Prova con la forza del pensiero – aveva detto il professore con un tono ironico.
Lui, che poveretto era un po’ tardo, aveva preso alla lettera le parole dell’insegnante. Concentratissimo fissava il computer con le dita sulle tempie e gli occhi strizzati per lo sforzo nel tentativo di accenderlo. Compagni e professore, evidentemente dotati di molta poca creanza, lo guardarono deridendolo senza aiutarlo, per più di dieci minuti. Fu una scena molto penosa.
Erano da poco passate le sei quando suonò la sveglia. Marco voleva fare bella figura al colloquio e nonostante l’appuntamento fosse alle dieci, aveva intenzione di uscire di casa alle sette, sette e mezzo al massimo per trovarsi alla trattoria con un po’ d’anticipo. In realtà partiva così presto anche perché il posto distava circa un’ora da casa sua in auto. Ma Marco era molto pigro e pospose la sveglia per cinque volte prima di trovare la voglia di alzarsi dal letto.
Appena uscì dal tepore delle sue coperte, un brivido di freddo gli percorse la schiena. Stava così bene al calduccio, sotto il piumone decorato con i personaggi di un cartone animato della Disney, che la tentazione di tornarci fu molto forte. Con un enorme sforzo di buona volontà si alzò e si avviò verso il bagno. Fece scorrere l’acqua della doccia qualche minuto affinché diventasse calda quel tanto che bastava per fiondarsi dentro senza gelare. Rimase pacifico sotto quello scroscio bollente per un tempo a lui parso molto breve. Ma alle sette la madre entrò in bagno.
- Guarda che sono le sette passate. – gli comunicò – Spero tu non abbia intenzione di farti notare già dal primo giorno!
- Ma mamma, perché non mi sei venuta ad avvisare prima? – gli urlò di rimando in malo modo.
- Beh, sarebbe anche ora che iniziassi ad arrangiarti – e se ne andò sbattendo la porta.
Quella povera donna era costretta ad assisterlo come un bambino da sempre: gli metteva i libri nello zaino la mattina e gli preparava il suo panino alla marmellata, acquistava i suoi abiti, lo serviva e lo riveriva. Si può capire la speranza che riponeva nel nuovo lavoro, perché gli conferisse un po’ di responsabilità e maturità.
Finalmente Marco uscì dalla doccia per farsi la barba. Si lavò i denti, si pulì le orecchie e si profumò con il suo dopobarba. Quando arrivò in camera, indossò prima i suoi jeans preferiti e poi il cardigan viola e la camicia a quadri preparatigli sulla sedia dalla madre. L'ansia che gli metteva il dover affrontare questa giornata, gli fece dimenticare la colazione. Si infilò nella giacca firmata e prese la sua borsa a tracolla.
Uscì di casa salutando la madre con un bacio distratto e agguantando le chiavi della sua Vespa 50 special appoggiate in bella vista sulla credenza in entrata, perché non se le dimenticasse.

Capitolo Due

Marco saltava gli scalini tre alla volta con foga. Non era goffo, ma la fretta di arrivare in garage nel minor tempo possibile gli giocò un brutto tiro. Appoggiò in maniera sbagliata il piede sullo scalino e la caviglia gli cedette. Questo lo fece inciampare e ruzzolare giù per alcuni gradini cadendo lungo disteso sul pianerottolo. Una fitta lancinante al ginocchio sinistro lo trafisse e sentì che stava già per iniziare a gonfiarsi.
Si pulì dalla polvere e percorse l’ultima rampa di scale zoppicando su un piede e appoggiando più peso possibile sulla ringhiera metallica alla sua destra. Fortunatamente arrivò al garage senza altri infortuni.
Voleva controllare lo stato della ferita. Così si arrotolò i jeans fino al polpaccio, quel tanto che bastava per accorgersi che non andavano più su, essendo troppo aderenti. Quindi fu costretto a sbottonarsi i pantaloni e toglierseli per controllare la situazione del ginocchio. Il solo sfregarsi del tessuto sulla gamba gli procurava dolore. Quando riuscì ad abbassarsi i pantaloni, vide una macchia violaceo–verde–marrone che gli ricordava tanto il miscuglio ottenuto con le tempere dei colori primari, o forse erano quelli secondari.
- Non ci sono sbucciature e non perde sangue per lo meno, – si disse – ma fa un sacco male lo stesso.
Avrebbe voluto mettere della pomata per evitare un eccessivo gonfiore, ma ciò avrebbe comportato un inutile spreco di tempo. Quindi optò per sopportare il male. Si sentì orgoglioso di se stesso nel sopportare il dolore così virilmente senza bisogno di aiuto. Finito di esaminare il ginocchio si ritirò su i jeans.
Infilò le chiavi nella Vespa e tentò di accenderla un paio di volte, senza riuscirci. Pensò subito che doveva essere la candela sporca, era da qualche giorno che faceva fatica ad accenderla. Si tolse giacca e tracolla per lavorare meglio e li appoggiò a terra in un angolino.
Tolse la pipetta dalla candela e poi la svitò la candela stessa. Cercò carta vetrata e benzina: era agli sgoccioli, sarebbe bastata a stento per l’operazione di pulizia. Si accinse quindi a sfregare il pezzo del motorino con un po’ di carta vetrata e carburante per poi rimontarla. Soddisfatto del buon lavoro riprovò ad accendere nuovamente la Vespa. Dopo più volte che tentava si accorse che non si decideva a partire.
Si può pensare che la somma di tutte queste sfortune sia improbabile, se non impossibile, che avvenga in un solo mattino ad una sola persona. Ma per Marco, queste erano le normali vicissitudini di ogni giorno.
- Che c’è che non va? – pensò stizzito – Se continua a non funzionare, sarò costretto a domandare a papà di prendermi una nuova moto … La benzina! Che scemo che sono.
Mentre ieri tornava da scuola si era accorto di essere in riserva, ma l’appetito e la voglia di sdraiarsi sul divano lo avevano distratto dal suo intento di fermarsi al distributore.
Aveva finito tutta la scorta di benzina presente in casa poco prima, per pulire la candela, così gli venne l’idea di aspirare con una canna un po’ di carburante dall’auto del padre. Non ci aveva mai provato, ma per il nuovo lavoro avrebbe potuto fare questo ed altro.
Si tuffò in un ammasso di vecchie robe ormai inutili e molto probabilmente rotte alla ricerca di un tubo, o almeno qualcosa di simile. Fra decine di scatoloni piegati, sacchetti e attrezzi, riuscì a trovare un tubicino. Aprì il serbatoio dell’auto con la chiave di scorta che tenevano sempre nel cassetto del mobile ad angolo ed infilò il tubo all’interno.
“E se mi va in gola, soffoco e muoio? E se il tubo è bucato, cade per terra la benzina e poi prende fuoco, bruciando tutto? E se … ?” questi e altri simili pensieri affollavano la mente di Marco. “Ma sì, in fondo nei film lo fanno sempre, senza morire mai” concluse.
Finalmente prese il coraggio ed iniziò ad aspirare. L’orrendo gusto della benzina gli graffiò la gola e ne bevve un poca prima di sputare tutto. Per lo schifo balzò all’indietro e ciò gli fece tornar male al ginocchio come se fosse inciampato di nuovo. Si era anche lasciato cadere la cannuccia lasciando a terra una gran pozza di benzina.
- Forse devo tirar su un po’ più piano. – considerò.
Riprovò, e questa volta fortunatamente riuscì a calibrare in maniera corretta il suo respiro. Inserì quindi l’estremità del tubo all’interno della Vespa e travasò quasi un litro di carburante aggiungendoci la giusta quantità di olio.
- Oh là! Adesso devo solo andare a fare il pieno.
Ributtò il tubo in mezzo alla montagna di cartone e risistemò i serbatoi.
Salì sulla Vespa per accenderla e questa volta ci riuscì al primo tentativo. Prima di uscire, si infilò la borsa e indossò la giacca. Le aveva abbandonate per terra prima di sistemare il motorino e notò di aver sporcato una manica e gran parte della borsa con la benzina che gli era caduta.
Puzzava in una maniera orribile.

Capitolo Tre

Dopo aver attraversato qualche stop ed essersi fermato ad alcuni semafori, Marco arrivò al distributore. Si era portato da casa, in un sacchettino per non sporcare ulteriormente la borsa, una bottiglietta con l’olio da aggiungere ai quattro litri di benzina che aveva intenzione di fare. Un benzinaio giovane e cordiale lo servì aiutandolo ad inserire le giuste quantità. Probabilmente era così gentile perché Marco era il primo cliente del giorno e non era ancora stanco e stressato come a fine giornata. Il ragazzo pagò e poi si avviò verso il luogo del colloquio. Le lancette del suo orologio gli indicavano che erano passate le otto.
Aveva intenzione di passare per Parco Sempione prima di andare alla trattoria. Questa era una specie di tradizione portafortuna: prima di ogni occasione importante andava a sedersi sempre sulla sua panchina, a costo di chiedere gentilmente ad un suonatore di bonghi di spostarsi. Si sedeva sulla panca e non faceva nulla oltre a guardarsi intorno e pensare per una decina di minuti. In fondo, non serviva proprio a nulla, ma si sa, ognuno ha i propri riti propiziatori apparentemente infondati ma in realtà fondamentali. Proprio questa sua volontà di passare per Parco Sempione gli procurò una gran bel guaio.
Era quasi arrivato all’entrata vicina all’acquario quando urtò contro qualcosa. Mancava poco che sbandasse e finisse gambe all’aria. Ma grazie alla sua abilità nella guida riuscì a rimanere a cavallo della Vespa.
“Maledetti scemi che lasciano le bottiglie in mezzo alla strada!” pensò.
Appoggiò il motorino su un lato della via e scese per andare a togliere dal mezzo della carreggiata l’oggetto che aveva cozzato.
Appena si voltò per vedere cos’aveva investito, si trovò davanti la macabra visione di un riccio morto, spremuto dalle sue ruote. Un conato di vomito gli salì in gola, ma riuscì a deglutire stomacato.
- Tu, bifolco, ti ho visto! Non provare a muoverti!
Marco si voltò verso la direzione da cui proveniva la voce. Era acuta e stridula, molto fastidiosa. Vide una donna sulla sessantina che stava correndo verso di lui. Più che una corsa, il suo, era un ballonzolare, vista l’enorme pancia che doveva portare con sé. Era una di quelle persone delle quali capisci chiaramente tutto al primo sguardo: portava una fascia colorata sui capelli e un lungo vestito largo e arancione, troppo leggero per la temperatura quasi invernale. Aveva certamente avuto un passato da hippie, viaggiando per l’Europa a bordo di un Volkswagen e fumando marijuana.
- Come puoi tu spezzare senza il minimo rimorso una vita? Infame! – disse la donna con la voce rotta dal pianto e avviandosi verso la raccapricciante scena del riccio.
- Signora, la prego si calmi. Guardi, non l’ho fatto apposta. Dispiace anche a me. – tentò di consolarla Marco.
La hippie non rispose e rimase a contemplare la morte del riccio per qualche minuto.
“Vuoi vedere che quell’animale, oltre a farmi perdere tutto questo tempo, mi ha anche bucato una gomma?“ pensò il ragazzo. Si accinse quindi a controllare lo stato dei suoi pneumatici e si inginocchiò: nessun foro.
“Bene, almeno le gomme sono a posto. Ora devo solo liberarmi di questa scocciatrice animalista … ”.
Non fece nemmeno in tempo ad alzarsi che uno sguardo maligno lo perforò: tanto prima sembrava buona quella donna, quanto ora era terrificante.
- Tu, hai appena accoppato questa povera creatura e ti preoccupi solo delle tue luride gomme? Screanzato senz’anima, la pagherai! – gli urlò.
- Signora, mi perdoni, ho un appuntamento. Non posso proprio tardare, devo andare! - tentò di giustificarsi il giovane.
- Oh no caro, tu non scappi da nessuna parte! Adesso vieni qui!
Ma Marco, non avendo quello che si dice un cuor di leone, si era già avviato a passi svelti verso la Vespa abbandonata poco più avanti.
La donna, presa da una furia indemoniata, si slanciò verso il ciclomotore e in un istante estrasse dalla tasca un piccolo coltellino serramanico. Lo teneva sempre con sé perché aveva l'abitudine di andare a tagliare le corde dei palloncini che si trovano sempre alle manifestazioni o alle giostre, che normalmente si regalano ai bambini. “Voglio renderli liberi dalle loro catene” si giustificava sempre.
Usò il suo temperino per forare le gomme della Vespa.
- Adesso ho vendicato il riccio da te ucciso. Impara la lezione giovanotto. – proferì la vecchia.
- Ma … - restarono sospese le parole del ragazzo.
Dopodiché la hippie si avviò di nuovo verso il parco con il suo passo ballonzolante.
Durante tutta questa scenata, Marco non ebbe nemmeno il tempo di pensare ad una parola. Non ebbe nemmeno il coraggio di tentare una piccola vendetta sulla vecchia, per paura di scatenare reazioni peggiori della precedente.
A Marco non rimase altro da fare che abbandonare la Vespa al suo destino, prendendo apposite precauzioni contro eventuali furti, per avviarsi verso la linea della ferrovia. Sarebbe potuto arrivare alla trattoria in treno, sperando di scendere alla giusta fermata.
“Non può andare peggio di così” pensò.
Detto ciò iniziò a piovere.

Capitolo Quattro

Stava iniziando a piovere violentemente e Marco correva per la strada che costeggia il Castello Sforzesco da un lato e Parco Sempione dall’altro alla sua massima velocità.
Sembrava quasi che tentasse di evitare le gocce di pioggia per non bagnarsi. Era quasi arrivato alla Stazione della ferrovia, quella più vicina al parco, quando il piede s’immerse in una profonda pozzanghera che lo bagnò fin sopra la caviglia.
“Oggi me le becco proprio tutte le sfighe!” pensò.
Presto riuscì a salvarsi dal tremendo temporale all’interno della stazione. Doveva prendere un treno che lo conducesse verso la periferia nord di Milano, perché doveva scendere alla stazione di Cusano Milanino per arrivare in trattoria.
- Treno in arrivo alle otto e cinquantatrè al binario quattro, destinazione Camnago-Lentate – proferì una voce femminile proveniente dall’altoparlante.
- Otto e cinquantatrè? – pensò ad alta voce il ragazzo, speranzoso – Cavolo, forse riesco veramente ad arrivare in tempo al colloquio!
Sfortunatamente Marco non considerò il fatto che il treno per Camnago era quello che lui avrebbe dovuto prendere per andare alla trattoria. Senza farsi troppi problemi, dunque, si avviò verso il bagno pubblico, perché gli scappava da morire. Mentre stava facendo pipì e rifletteva sul tragitto da percorrere, ripensò all’annuncio dei treni in partenza.
- Cazzo! – fu la parola che ogni persona nel raggio di un chilometro dal bagno udì.
Si tirò su i jeans in un batter d’occhio e si precipitò fuori dal gabinetto di corsa, senza nemmeno lavarsi le mani.
- E dove cazzo è il binario quattro? – si domandò in preda al panico.
Presto in suo aiuto vennero dei cartelli con le indicazioni da seguire. Durante la sua corsa sfrenata intravide un orologio digitale che recitava l’orario 08:54. Il treno era quasi certamente perso, ma Marco continuò a correre nella folle speranza di salire a bordo.
Riuscì a raggiungere il tanto agognato binario con il convoglio ancora fermo, ma le porte si stavano chiudendo. Entrò all’interno per il rotto della cuffia, tanto che parte della tracolla rimase incastrata fra le porte. Dopo averla tirata un po’, riuscì a liberarla.
Un pensiero balenò nella sua mente: “Il biglietto!”.
Marco era una persona molto corretta e pagava sempre il biglietto, come controllava sempre il resto e denunciava all’insegnante le trasgressioni dei compagni di classe. Era una sensazione strana questo nuovo viaggio clandestino e si sentiva abbastanza a disagio. Avanzò verso una carrozza cercando un controllore al quale potesse confessare la propria mancanza e che gli offrisse un rimedio.
Sulla seconda carrozza incontrò Arianna, la sua ex ragazza della quale era ancora innamorato.
- Marco! – lo salutò la ragazza – che bello vederti. Dopo che ci siamo…ehm…dopo che ci siamo lasciati non ti sei più fatto vivo. Ma come stai?
Gli occhi verdi e i lunghi capelli di Arianna provocarono in Marco un blocco, tanto che non fu in grado di formulare alcuna risposta. Era una ragazza di modesta bellezza, che difficilmente sarebbe potuta stare con un tipo come Marco. Eppure la pena che provava nei suoi confronti l’aveva spinta a frequentarlo. Si rese conto presto, però, che erano troppo diversi l’uno dall’altro e la storia finì nel giro di poco tempo, con grande sofferenza del ragazzo.
- Io… – iniziò il giovane – Io sto bene. E tu Arianna, come stai? Mi sei mancata.
- Oh, che caro! Anche tu mi sei mancato. – mentì.
E iniziarono una conversazione durante la quale Marco sparò un sacco di balle nel tentativo di farsi più bello ai suoi occhi.
- Eh sì, - diceva – la settimana scorsa tipo, ho pestato uno che voleva rubarmi la Vespa.
“Quella su cui andavamo sempre io e te” pensò. Ma non lo disse, perché doveva fare il duro. Sapeva che a lei erano sempre piaciuti.
- E gli ho fatto saltare un dente. Perché, quando mi incazzo, non mi ferma nessuno.
- Poveretto, gli devi aver fatto tanto male! – gli diede corda la ragazza, nonostante sapesse benissimo che il fatto era inimmaginabile, oltre che impossibile.
- È stato due o tre giorni in ospedale. – continuò imperterrito a raccontare.
Dopo una decina di minuti abbondanti durante i quali Marco continuò ad inventarsi storie di tutti i colori, un controllore entrò nel vagone e raggiunse i due giovani.
- Favorisca i biglietti, prego – comunicò l’omaccione.
“Oh no! E adesso che faccio?” si domandò il ragazzo.
Dopo che Arianna esibì il biglietto, l’uomo si girò verso Marco con fare minaccioso.
- E lei, giovanotto?
- Ehm, signore, le chiedo scusa ma – iniziò a balbettare – non sono riuscito ad acquistarlo. Perché…si ecco, il treno stava partendo e vede non potevo perderlo. Sono anche andato in cerca di qualcuno a cui domandare come potessi rimediare a questo mio errore. Ma non so per quale motivo non l’ho trovata. E …
- Una multa allora se la merita tutta – lo bloccò il controllore.
Marco stava iniziando a sudare freddo e gli occhi gli si inumidirono.
- La prego, se me lo permette pago a lei il tratto che devo percorrere …
- Sta tentando di corrompermi? – si infuriò il controllore, profondamente contrario a questo tipo di sotterfugi.
- No, non intendevo dire questo! – si difese sinceramente Marco, perché non era questo il suo intento – Se mi permette …
- Ecco il suo biglietto, lo stavo tenendo io – lo difese la ragazza.
Marco non aveva mai amato tanto Arianna come in quel momento.
- Signorina, per quale motivo mi ha fatto perdere tutto questo tempo se il biglietto l’aveva acquistato?
- Mi ero dimenticata di aver preso questo biglietto per il mio ragazzo.
Marco si sentì quasi svenire a quelle parole: Arianna aveva appena detto al controllore che loro due erano fidanzati. Questo poteva solo significare che era ancora interessata a lui.
Il povero ragazzo, però, non poteva sapere che quelle parole erano vere. Arianna si era procurata due biglietti: uno per sé e uno per il suo ragazzo, quello vero, che sarebbe salito alcune fermate dopo di lei.
- Per questa volta la scampate, ma non accada più che mi facciate questi giochetti. O la multa non ve la toglie nessuno!
- Ci scusi e la ringraziamo per la sua comprensione – lo salutò gentilmente Arianna.
Il controllore se ne andò avanti alla ricerca di qualche altra vittima.
- Arianna … - tentò di ringraziarla Marco.
“Forse anche lei è ancora innamorata di me.” pensò “Oh, quanto le sono grato di avermi salvato da quel controllore! Certo, se non le piacessi non mi avrebbe mica coperto come invece ha fatto!”. Di questo genere erano i suoi pensieri confusi.
- Oh figurati, nessun problema! – lo anticipò la ragazza – Guarda, ecco che arriva il vero proprietario del biglietto! Ciao amore.
Era appena entrato nel vagone l’effettivo ragazzo di Arianna, che la baciò. L’invidia si impossessò di Marco, ma non fece altro che reprimere la sua rabbia. Non sarebbe mai stato in grado di reagire, non era provvisto di tanto coraggio.

Capitolo Cinque


- Mi sei mancata amore – fu il saluto del ragazzo di Arianna alla giovane.
Era un uomo, aveva almeno dieci anni più di lei. Indossava un chiodo, il giubbotto nero in pelle che usualmente indossano i metallari, che faceva risaltare la sua imponenza e i suoi muscoli. E puzzava. Puzzava di un misto fra alcol, fumo e sudore.
“Già, ad Arianna sono sempre piaciuti i duri” fu l’unico pensiero di Marco.
L’uomo non si preoccupò minimamente del ragazzo e continuò a coccolare la sua ragazza.
- Amore, lui è un mio amico, si chiama Marco. – lo presentò Arianna dopo alcuni interminabili minuti – Marco, questo è il mio ragazzo Cesare.
Cesare squadrò Marco dalla testa ai piedi: aveva una scarpa e parte dei jeans totalmente fradici, sapeva di benzina (ma non sentiva il puzzo di sudore del ragazzo perché era ormai abituato al proprio) e aveva pure la cerniera dei pantaloni aperta. L’unico pensiero fu: “Ma da dov’è saltato fuori questo?”.
- Ehm, piacere – provò a presentarsi Marco porgendo la mano in segno di saluto.
- Sì, come ti pare – lo fulminò il metallaro, continuando ad ignorarlo e concentrando tutta la sua attenzione sulla ragazza.
- Dai, non essere scortese tesoro. Salutalo almeno! – disse Arianna tentando di aiutare l’amico.
- Come posso badare a lui quando ho di fianco a me un angelo?
A questo punto, anche Arianna perse tutto l’interesse per Marco e si dedicò solo a Cesare.
“Lecchino bastardo” pensò Marco, trafiggendolo con un'occhiataccia. Per sfortuna del povero ragazzo, l’omone se ne accorse.
- Questo stronzo ha il coraggio di guardarmi storto? Ora te lo storco io a dovere il muso! – ululò Cesare.
- No, ma che dici! Io non ho fatto proprio niente! – tentò di difendersi Marco.
- Dai amore, Marco non ti ha guardato male, sarà stato uno strano gioco di luci. – andò in suo aiuto Arianna.
La pena che provava la ragazza continuava a crescere. “Ma cosa va a mettersi nei pasticci con uno come Cesare che lo stende solo guardandolo. Ma che stupido!” pensava “ Speriamo che Cesare lo lasci perdere. Poveretto!”.
- Ma che luci! Qua sta solo piovendo e con questi finestrini appannati non riuscirebbe ad entrare neanche un solo raggio di sole, se anche ci fosse. – continuò Cesare.
- No, fidati, non ti ho guardato male. Non mi permetterei mai! – si difese disperatamente Marco.
- Che vigliacco! Non ce le hai proprio le palle! Ti lascio perdere solo perché non ci sarebbe neanche gusto a darti una lezione.
- Ben detto! – esclamò Marco con molta, molta enfasi.
Marco non si rese affatto conto del fatto che le sue parole erano sembrate una vera e propria presa per i fondelli.
- Ma allora te le cerchi piccoletto – disse Cesare alzandosi per dirigersi verso Marco.
- Fermata di Cormano-Brusuglio! – annunciò l’altoparlante, salvando il giovane in corner.
Per Marco fu un sollievo. Si fiondò verso l’uscita del vagone, nella speranza che le porte fossero già aperte. La fermata annunciata, era quella che precedeva la sua, quella di Cusano, ma doveva salvarsi in qualche modo dal ragazzo di Arianna. Sentiva come il fiato di un toro alle sue spalle: ancora pochi centimetri e sarebbe stato incornato.
Il treno era ancora lievemente in movimento e per questo motivo le uscite erano bloccate. Dovette quindi fare uno sforzo: attraversò qualche carrozza seguito dal bestione che lo rincorreva con il chiaro intento di fargli del male, mentre in sottofondo si sentiva vagamente l’azzurra voce di Arianna che pregava il proprio ragazzo di “lasciar perdere quel povero sfigato”.
Marco, sconvolto dalle parole della giovane bloccò all’istante la sua fuga. Ebbe appena il tempo di girarsi verso Arianna, che un gancio di Cesare lo colpì in pieno stomaco, stordendolo e facendolo crollare a terra.
- Ma sei scemo! Lo uccidi uno se gli tiri dei cazzotti del genere! – gli urlò contro la sua ragazza.
- Modera il linguaggio bambina, devo ancora iniziare con lui. – muggì l’uomo.
- Signore, ma che maniere sono! – lo rimproverò una vecchina, l’unica passeggera presente su quel vagone – Non tratti così questi due poveri giovincelli, non possono averle fatto nulla di così grave da scatenare una reazione tanto esagerata.
- Nonna, stia zitta se non vuole che poi me la veda anche con lei – sbraitò Cesare assestando un piccolo calcio con i suoi grandi anfibi sul volto gemente di Marco, quasi fosse un semplice tic.
- Ma come si permette, chi le ha insegnato l’educazione? Cosa le da il permesso di compiere simili barbarie? Signor controllore, signor controllore! – iniziò a urlare la signora in cerca di un aiuto.
Subito uscì dal bagno il controllore che prima aveva interrogato Arianna e Marco.
- Ancora lei signorina! Cos’ha combinato ora?
- Oh, caro signore, quella povera ragazza non ha fatto nulla. Questo bruto imbufalito, invece, ha aggredito senza alcun motivo un povero giovane – iniziò a raccontare la vecchina indicando il punto in cui prima era disteso inerme Marco.
Ma ora non c’era più nessuno.
Approfittando del caos scatenato dalla signora, che aveva distratto quell’ammasso di muscoli che era Cesare, Marco si era trascinato fino alla porta ed era riuscito a scendere dal treno sulle sue gambe poco prima della chiusura delle porte.
Osservò il treno partire e vide lo sguardo vendicativo dell’attaccabrighe che al di là del finestrino lo minacciava. Non ebbe però il coraggio di scrutare negli occhi di Arianna.
“Ma sono proprio tutti scemi oggi” pensò e si avviò stringendosi forte lo stomaco verso l’uscita della stazione. Aveva tanta strada da fare e poco tempo a disposizione per percorrerla.

Capitolo Sei

Uscito dalla stazione Marco si accorse che non pioveva più.
“Almeno questo.” pensò “Cavolo che pugno che mi ha tirato quello stronzo.”
Per il male allo stomaco, non si era accordo di perdere sangue dallo zigomo a causa del calcio che gli aveva rifilato Cesare.
Guardò il suo orologio da polso e si accorse che erano da poco passate le nove e venti. Per arrivare alla trattoria dal punto in cui si trovava, calcolò che avrebbe dovuto camminare per circa tre chilometri e contò di riuscire ad arrivarci in trenta minuti, camminando velocemente. Si poteva addirittura permettere il lusso di entrare in un bar a prendere un caffè per scrollarsi di dosso tutte le disavventure della mattina.
Entrò nella prima bettola che trovò e il barista, dotato di un discutibile senso dell’igiene, lo squadrò molto male, facendo intuire a Marco le pessime condizioni in cui si trovava. Dopo aver preso un espresso caldo con molto zucchero, andò alla toilette per darsi una sistemata.
Nel bagno non c’era nemmeno uno specchio, dovette perciò arrangiarsi guardando il suo riflesso sulle piastrelle lucide. Tuttavia riuscì ad ottenere un risultato accettabile. Pagò il conto e uscì dal locale avviandosi con passo tranquillo verso Cusano.
Camminò per dieci minuti serenamente, dimentico delle peripezie di poco prima e fiducioso che la buona sorte l’avrebbe assistito per il resto della giornata. Ma Marco Brambilla era un nome che la dea bendata non conosceva.
Un’auto di grossa cilindrata passò a tutto gas vicino al giovane e la sfortuna volle che proprio di fianco a Marco si fosse creata, a causa dei temporali, una profonda pozzanghera che assalì il ragazzo. Istintivamente egli alzò il dito medio e aggiunse l’adatta la frase di accompagnamento a tale gesto, rivolto all’autista. Proprio in quel momento un poliziotto svoltò l’angolo e fu inondato dalle imprecazioni di Marco.
- Signore la prego di perdonarmi non era mia intenzione offenderla. – si giustificò prontamente Marco – Un idiota ha appena preso quella pozzanghera e mi ha bagnato dalla testa ai piedi!
- Moderi il linguaggio, sta parlando con un ufficiale! – rispose severo il giovane poliziotto.
- Mi perdoni agente, non volevo proprio aggredirla in quel modo. La prego di accettare le mie scuse. Ho un importante colloquio di lavoro e non posso assolutamente tardare. – tentò di impietosirlo Marco.
- Per questa volta le credo, ma veda di non insultare mai più noi agenti di polizia come ha appena fatto.
Il giovane annuì e salutò. Prima di andarsene, una domanda balenò nella mente del ragazzo.
- Signor agente, mi perdoni. Ho sempre avuto, sin da bambino, una passione per il corpo della polizia e avrei una curiosità che lei può aiutare a saziare.
- Prego, dica pure. – rispose orgogliosamente il poliziotto.
- Mi potrebbe mostrare il suo manganello? – chiese timidamente Marco, senza nemmeno immaginare il significato nascosto della sua frase.
Una vampata di rabbia salì fino alle orecchie della guardia suscettibile, che si sentì ferita nell’orgoglio.
- Come si permette di oltraggiare in questo modo il corpo della Polizia di Stato? Mi segua, che la porto a fare un giro fino al commissariato di Cinisello Balsamo per queste sue gravi offese. – lo accusò indignato il poliziotto.
- No! Per quale motivo dovrebbe arrestarmi? Cos’ho fatto di male? Ho solo domandato se mi poteva mostrare la sua arma, non volevo offenderla. Se non le va, basta che mi dica di no e ognuno va per la sua strada.
- La finisca di fare questi giochini di parole, non sono affatto divertenti. Andiamo, la volante è parcheggiata poco più avanti.
- No no! La prego, io non volevo fare nulla di male, non volevo oltraggiare nessuno. – supplicò Marco, con le lacrime che gli rigavano le guance arrossate.
L’agente s’imbarazzò, perché aveva capito che ciò che aveva detto il ragazzo non aveva nessun secondo fine, non aveva intenzione di prenderlo per i fondelli. Intanto Marco stava impalato davanti a lui con lo sguardo basso per la vergogna del proprio pianto.
- Senti ragazzo, evidentemente ci siamo capiti male. – iniziò l’agente – Non ti porterò in commissariato. Va pure al tuo colloquio di lavoro e dimentichiamo quello che è successo. – concluse l’agente dando una forte pacca sulla spalla di Marco.
Al ragazzo si illuminarono gli occhi per la felicità: aveva già immaginato di dover trascorrere la notte in cella perché i suoi non avrebbero pagato la cauzione in modo da fargli imparare la lezione.
- Oh, la ringrazio così tanto! Giuro che entrerò a far parte della polizia quando sarò più grande. – esplose Marco.
- Bene, saggia scelta ragazzo, arrivederci! – lo salutò l’agente, che se ne andò.
Anche Marco riprese a camminare per la sua strada, allegro per essere riuscito a scamparla ancora una volta.

Capitolo Sette

“Chissà poi perché se l’è presa tanto quello sbirro” pensava Marco mentre procedeva verso la trattoria. Subito dopo fu colto da un terribile dubbio: “Ma che ore sono?”. L’orologio lo informò che mancavano meno di dieci minuti all’inizio del colloquio.
Partì quindi in una corsa disperata per arrivare in tempo alla trattoria. Durante il tragitto, dopo meno di due minuti da quando si erano lasciati, incontrò nuovamente il giovane poliziotto. Egli si sentiva ancora terribilmente in colpa per come aveva aggredito il ragazzo e per il suo pianto pieno di vergogna. Fu solo per alleviare un poco il proprio senso di colpa che l’agente accostò e chiese al ragazzo se volesse un passaggio fino al luogo del colloquio. Marco accettò senza la minima esitazione, felicissimo di ottenere un aiuto dopo un giorno pieno solo di ostacoli da superare. Dopo che il ragazzo salì sulla volante entrambi sentirono che un grosso peso si era sollevato dal loro cuore.
- Da che parte andiamo? – domandò l’agente.
- Ehm, devi passare la strada più grande e andare sempre verso Cinisello. – furono le vaghe indicazioni di Marco. “Mi sembra” aggiunse poi nella propria mente.
Vagabondarono alla ricerca della trattoria per più di venti minuti: uno non conosceva nemmeno la meta e l’altro aveva la testa costantemente in un altro mondo.
- Ma tu sai dove devi andare, vero? – domandò l’agente che stava iniziando a scocciarsi.
- Sì sì! Ecco, ora svolta a destra! – mentì Marco in preda al panico.
- Ma per questa via ci siamo già passati almeno tre volte!
- Beh … ma le strade qui sono tutte uguali, è difficile orientarsi. – balbettò Marco.
Attraversarono tutto il paese e finirono in diverse strade chiuse che non portavano da nessuna parte. Quando ad un certo punto a Marco venne un’idea che ritenne assolutamente brillante.
- E se provassimo a chiedere indicazioni a qualche abitante del paese? – domandò imbarazzato al proprio autista.
- Senti, se non arriviamo entro i prossimi due minuti ti lascio qua per strada e ti arrangi a trovare quella dannata trattoria! – si infuriò il poliziotto – Guarda, prova chiedere a quel ragazzo dove si trova il posto.
Marco uscì dall’auto e ottenne dal ragazzo le informazioni che cercava: “Tieni sempre la sinistra agli incroci e vedi che ci arrivi! Anche nella vita, bisogna stare sempre a sinistra” gli aveva detto. Riferì le istruzioni all’agente e si avviarono. Uscirono dal centro abitato e dopo poco si trovarono fuori dal centro della cittadina, perché le indicazioni del ragazzo erano sbagliate.
Decisero di aggirare il paese, senza entrare nel nucleo. Marco aveva paura di guardare l’orario e preferiva non sapere di quanto fossero in ritardo. Quando, come per miracolo, trovarono un cartello che indicava loro la strada da percorrere per arrivare in trattoria.
- Ormai non ci speravo più. Ero stato colto dal dubbio che il posto non esistesse nemmeno! – esclamò il poliziotto sollevato al pensiero di essere quasi giunto al termine della propria odissea.
- Guardi! È là, in fondo alla via! – Marco faceva fatica a credere alle proprie parole.
L’esterno del locale appariva molto rustico, ma affascinante: profumava di tempi passati. L’edera si inerpicava lungo i muri e una signora stava aprendo le imposte di legno per far passare aria all’interno. Sotto il portico stava seduto un signore corpulento, molto alto e panciuto, abbandonato su una sedia troppo piccola per lui. Aveva la barba sfatta e fumava una sigaretta. Sembrava essere il padrone del posto.
- Bene giovanotto, ora ti lascio al tuo colloquio. Buona fortuna! – salutò il poliziotto.
- Arrivederci e grazie tante. – si congedò Marco allegramente.
L’autista partì ancor prima che il giovane fosse sceso dalla volante: non ne poteva più di quel babbeo che gli aveva fatto perdere mezza mattinata. “Maledetto senso di colpa” pensava mentre si allontanava dal casale.
Il padrone della trattoria squadrò il ragazzo che era venuto certamente per il colloquio da cameriere. Era in ritardo di almeno mezz’ora, puzzava di sudore e di benzina, era bagnato dalla testa ai piedi, era tutto scompigliato ed era appena sceso da una volante.
- Lei pensa di riuscire a ottenere il posto giovanotto? – chiese il pancione.
Marco vide il proprio riflesso sulla finestra linda, appena pulita e capì il perché di quella domanda. Ma preferì non rispondere.
- Bene, entriamo e vediamo se almeno sai fare qualcosa. – continuò l’uomo.
“Mi farà scappare tutti i clienti se si presenta così ogni giorno” pensò fra sé e sé il capo.
Marco lo seguì ed entrò nella bocca del leone: “Speriamo di non venir mangiato”.


Autori:
Diego Lombarda
Federica Magnabosco
Matteo Zoppello