Home Le sventurate avventure di Marco Brambilla A proposito dei laboratori... La mia verità Una vita da sogno

mercoledì 3 febbraio 2010

Racconto completo "La mia verità"


Capitolo 1

Il sangue sgorgava da quella sua lurida testa. Io e Davide guardavamo il corpo esanime di Luca steso a terra: l’avevamo ucciso. Eravamo stati noi due, insieme, anche se a spingerlo era stato solo uno eravamo entrambi colpevoli. Ma come si fa ad essere così idioti da scivolare sul ghiaccio e sbattere la testa contro il muro?
Non sapevo che fare, avevo paura. Mi voltai verso Davide, in cerca di un suo sguardo che potesse darmi forza. Era sempre sicuro di sé, protetto dai suoi muscoli e dal timore che incutevano nelle persone. Ma questa volta i suoi occhi brillavano alla luce fioca dell’unico lampione presente in strada.
- Che facciamo? – volevo rompere quel silenzio straziante, non ce la facevo più.
Nonostante tutto, però, non sentivo il bisogno di piangere. Luca era uno stronzo e di certo non sarebbe mancato a nessuno. Se l’era cercata la sua morte.
- Andiamo Mary. – mi rispose Davide in un soffio. Aveva la voce rotta: per la prima volta in vita sua aveva paura.
Mi prese per mano, non riuscii a capire se lo fece per fare forza a sé stesso o per fare forza a me. Ci allontanammo quindi dal parco e ci avviamo così, soli verso il fiume.
Davide mi era sempre piaciuto ed io ero sempre piaciuta a lui. Non ce lo eravamo mai detto, ma dentro di noi lo sapevamo. Era tutta colpa di Luca se non c’era mai stato niente fra di noi: con la sua gelosia e le sue protezioni non mi lasciava avvicinare da nessuno finché eravamo insieme, nemmeno dal suo migliore amico Davide. Tutto sommato ero contenta che fosse morto.
Arrivammo ad una panchina e ci sedemmo. Mi accesi una sigaretta e ne offrii una a Davide, anche se sapevo che non fumava.
- Sì, grazie – mi rispose.
Mi spiazzò, capii che nemmeno lui era perfetto: il suo viso d’angelo, il fisico marmoreo e la sua bontà erano impareggiabili. Nemmeno lui era senza difetti. Gli diedi una sigaretta e gliel’accesi consapevole che era colpa mia se non era perfetto.
Fumammo in silenzio, con la nuca spappolata di Luca ben impressa nella mente. Quella nuca che era stata per tanto tempo mia, che avevo coccolato e che avevo amato, nonostante fosse totalmente vuota all’interno. Iniziai a piangere.
Fu un pianto singhiozzante e pieno di paura. Non fu un bel vedere, fu sguaiato e umiliante. Appoggiai il mio viso sulla spalla di Davide e mi abbracciò. Io piansi per un sacco di tempo, avvinghiata a lui. Doveva salvarmi, senza la mia ancora sarei affogata. Prese il mio viso fra le sue mani e mi baciò. Fu un bacio semplice e, seppur privo di passione, pieno di affetto.
- Insieme ce la faremo. – mi disse – Fidati di me.
Mi fidavo di lui più che di chiunque altro. Lo baciai di nuovo, in segno della mia fiducia.
Era notte fonda, non c’era nessuno in giro. In un paesino stupido e pieno di vecchiacci come Meledo all’una non girava nessuno. Odiavo il paese in cui vivevo, non c’era un cane: solo sfigati che pensano ad arare i campi. Gli unici amici che avevo erano Luca e Davide ed ora uno era morto. Rimanemmo abbracciati sulla panchina fino a che non mi calmai e poi andammo a dormire a casa sua. I miei erano ad una qualche cena da amici e sarebbero tornati a casa talmente ubriachi da non rendersi conto se ero presente in casa o no.
Ci stendemmo sul suo letto, con i vestiti ancora addosso: avevamo bisogno l’uno dell’altra dopo la terribile nottata che avevamo passato. Io continuai a piangere sulla sua spalla, in silenzio però, per non svegliare i suoi.
In realtà non sapevo bene perché piangevo, non mi mancava Luca e non mi interessava nulla di lui. Non piangevo nemmeno per il senso di colpa: mi sentivo la
coscienza pulita era solo colpa sua se era morto. Piangevo solo per poter rimanere ancora rannicchiata fra le forti braccia di Davide. Nessuno dei due riuscì a dormire.

Intanto, steso sopra una lastra di ghiaccio giaceva Luca: nessuno immaginava che fosse ancora vivo.
Faceva fatica a respirare e aveva la vista totalmente annebbiata, non capiva nulla. Sentiva dentro di sé che non gli restava tanto da offrire a questa vita, che la morte voleva venirlo a prendere al più presto.
- Che figli di puttana. – riusciva solo a pensare – Ma gliela faccio pagare prima di andarmene da questo fottutissimo mondo.
Non aveva idea di che ora fosse, ma era sicuramente rimasto privo di sensi per gran parte della notte. Tentò di voltarsi e vide l’enorme chiazza di sangue che lo circondava. Sarebbe di certo morto: se non di freddo allora per dissanguamento. Nonostante la confusione che regnava nella sua testa, notò un cumulo di neve alla sua destra che ancora non era ghiacciato.
Iniziò a scrivere le iniziali del suo assassino: D.M. Proprio appena aveva finito di scrivere la M ecco che la morte lo venne a prendere. Luca non faceva più parte di questo mondo.
Per sua sfortuna, nei suoi ultimi momenti non aveva pensato che le persone presenti al suo assassino erano due: Maria Dall’Igna e Davide Marin. Due D.M. presenti, ma un solo assassino.


Capitolo 2

Io e Davide ci alzammo poco dopo prima delle sette nonostante fosse domenica. Eravamo distrutti, in tutti i sensi che questa parola può avere. Rubò una ventina di euro dal portafoglio dei suoi e andammo nel garage.
- Ti va se andiamo in centro? - mi domandò – Almeno andiamo in un bar decente a fare colazione.
- No, non ho tanta voglia.
- Che facciamo? – mi domandò.
- Vabbè, accompagnami a casa mia. – gli risposi.
- Okay, andiamo.
Mi consegnò il suo casco e inforcò la motocicletta. Era una gran bella moto, una 125 perché a diciassette anni potevi guidare anche quelle. Era blu e argentata e la sentivi ad un chilometro di distanza: siccome Davide aveva modificato la marmitta faceva un frastuono assordante. Non senza qualche difficoltà salii in moto e andammo prima a casa mia.
Ci sedemmo sulle seggiole della vecchia altalena che avevo in giardino. Era un miracolo che fosse ancora in piedi.
- Dici che hanno già trovato il corpo? – sussurrai a Davide.
- No, eravamo abbastanza imboscati. Per conto mio prima di questo pomeriggio non se ne accorgerà nessuno, nemmeno sua madre. – mi rispose pensieroso.
Aveva le ciglia aggrottate, perso in un pensiero profondo che sembrava turbarlo non poco.
- Il problema vero, - continuò – sarà inventarci una storia che regga da raccontare alla gente e alla polizia.
- Potremmo dire che eravamo andati a farci un giro a Brendola e che quella sera Luca non era con noi. Non abbiamo incontrato nessuno ieri sera che potrebbe contraddirci.
Lui rimase assorto nei suoi pensieri.
- È l’unica cosa che possiamo inventarci del resto. – disse – L’importante è non contraddirsi, sennò capiscono che nascondiamo qualcosa. Inventiamoci una storia che deve rimanere immutata anche se qualcosa non va. Ok?
- Sì sì, certo. Potremmo dire che siamo rimasti tutta la sera alla panchina, del resto non sarebbe nemmeno una bugia.
- E se c’è andato qualcuno prima di noi? Non possiamo raccontare una balla se non siamo sicuri di poterla confermare.
Aveva ragione. Possibile che fosse sempre dalla parte del giusto? Possibile che non sbagliasse mai nulla nella sua vita? Quanto era perfetto.
- Magari diciamo che avevamo deciso di trovarci al parco però Luca non arrivava così, dopo averlo aspettato un sacco di tempo, ce ne siamo andati. Quando poi lui è arrivato noi non c’eravamo. E noi non sappiamo niente di quello che è successo. – propose.
Era una trovata fantastica: finché eravamo stati al parco ancora tutti e tre vivi, non era passato nessuno.
- Beh, una storia meglio di questa non la troviamo di certo. Ora dobbiamo pensare bene agli orari. Che ore erano quando Luca aveva sbattuto la testa? – domandai.
- Erano da poco passate le ventitré, mi sembra di ricordare.
- Possiamo dire, allora, di essere arrivati alle nove al parco e di aver aspettato Luca fino alle dieci e mezzo. Dopodiché ci siamo rotti e siamo andati via.
Mi stavo auto convincendo che le cose erano andate veramente così, riuscivo quasi a sentire il nervoso che mi aveva fatto venir Luca non presentandosi ieri sera. Quello là faceva sempre quello che pareva a lui, disinteressandosi degli altri. E siccome era talmente stupido da non riuscire ad usare un maledettissimo cellulare era anche impossibile rintracciarlo.
Sì, erano andate così le cose, ne ero assolutamente convinta.
- Se ci chiedono cosa abbiamo fatto mentre lo aspettavamo, cosa gli rispondiamo? – mi domandò Davide. Stavamo pensando ad ogni singolo particolare.
- Diciamo che abbiamo parlato.
- E di che cosa? Non dobbiamo tralasciare niente Mary. – mi fissava negli occhi mentre mi parlava. Capii che la storia non lo convinceva tanto quando persuadeva me. Pensava che fossi troppo ingenua, glielo leggevo sul volto. Credeva che fossi troppo stupida per riuscire a tenere il gioco.
- Potremmo dire che eravamo un po’ brilli e che quindi facevamo gli idioti. – gli dissi – Almeno abbiamo una scusa da usare se non ricordiamo tutti i particolari.
Era una buona idea tutto sommato, certo non all’altezza delle sue, ma convincente.
- Sì, ci può stare. Comunque ci converrebbe lo stesso trovare un argomento. Metti caso che ci portino in centrale di polizia, ci chiederebbero di sicuro qualcosa di questo genere.
- Diciamo che abbiamo parlato dei nostri ricordi di’infanzia, o comunque una cosa così. Tanto ci conosciamo da un sacco di anni e le abbiamo passate tutte insieme. Non sarà difficile trovare qualche aneddoto da raccontare. E se ci domandano perché parlavamo di sciocchezze del genere, possiamo rispondergli che eravamo un po’ andati e che ci stavamo divertendo anche così.
- Fatta, così è perfetta. – rispose. Ora stava iniziando a convincersi anche lui della nostra storia.
Se c’era una cosa che ero brava a fare quella era inventare balle. Ero imbattibile perché quando le raccontavo ne ero convinta fino all’osso: riuscivo a convincere anche me stessa di quello che stavo dicendo. Non ero mai riuscita a capire, però, se questo accadeva perché ero brava a raccontarle o perché ero talmente stupida da imbrogliarmi da sola. Ma di certo, era più bello pensare che si trattasse della prima cosa.


Capitolo 3

Rimanemmo a chiacchierare in cortile per un po’. Discutemmo di cose futili e stupide, avevamo bisogno di distrarci.
Ad un certo punto mia madre uscì di casa urlando cose incomprensibili. Mi alzai e andai verso di lei, quando la raggiunsi era in un mare di lacrime.
- Mary è successa una cosa orribile. – mi annunciò gravemente.
- Cosa? – dovevo interpretare la mia parte meglio che potevo, non potevo sbagliare nulla.
- Luca è … è morto. La polizia ha trovato il suo corpo vicino al fiume.
Mia madre piangeva come una disperata, ancora un poco ed iniziava ad urlare a squarciagola. Riuscivo solo a pensare che dovevo recitare come non avevo mai fatto. Mi facevo schifo da sola da quanto ero insensibile. Avevamo ucciso un nostro amico, dovrò aver pure provato qualcosa! Un po’ di rimorso o anche rabbia, proprio niente? Non è possibile che fossi così senza cuore.
Sentii improvvisamente la prima lacrima che mi rigava il viso e piansi tra le braccia di mia madre. Non dicemmo nulla: io perché non volevo rovinare la mia recita e mia madre perché non sapeva come consolarmi.
Davide rimase sull’altalena durante questa scena, probabilmente eravamo troppo patetiche per i suoi gusti. O forse non sapeva come comportarsi.
Quando smisi di piangere mia madre mi disse che dovevamo andare in commissariato, a dire quello che sapevamo. Perché ormai anche la polizia sapeva che le uniche persone che frequentavano Luca eravamo io e Davide. Ci avviammo tutti e tre verso l’auto di mia mamma e partimmo verso la questura.
Quando scesi dall’auto un brivido di paura mi corse lungo tutta la schiena, ero veramente in panico. Cercai la mano di Davide, avevo bisogno del suo calore e del suo sostegno. Lui però non mi badò: appena sentì il contatto della mia mano la ritrasse e abbassò lo sguardo. Biascicò qualcosa, ma, irritata, non lo stavo a sentire.
Entrammo all’interno dello stabile: c’erano ovunque uomini in divisa pronti a sbranarmi. Chissà se sarei sopravvissuta. Camminammo lungo il corridoio principale fino a giungere all’ultima stanza, quella del commissario.
- Salve commissario, mi ha chiamato poco fa per dirmi della… - fece una lunga pausa e prese fiato – della morte di Luca. – disse mia madre.
- Sì giusto, Luca Cecchetto. Sono molto addolorato. – disse porgendo la mano a ciascuno di noi tre.
Io impietrita porsi la mia, ma non riuscii a stringerla. Non avevo più forze. Per Davide, invece, il saluto sembrò quasi una routine, ostentava un’immensa sicurezza.
Rimanemmo lì tutto il resto della mattinata. Il commissario ci fece delle domande in quella stessa stanza. Ci chiese se eravamo con Luca ieri sera, da quanto non lo vedevamo, perché non eravamo con lui, se ci fossero stati litigi fra di noi di recente oppure con altra gente. Fece poche altre domande, perché evidentemente avrebbe voluto sentirci separatamente. Rispose Davide a quasi tutte le domande, eccetto quando il poliziotto si rivolse esplicitamente a me.
- Avevate litigato di recente? – mi domandò.
Lo fissai bloccata, non riuscendo ad aprire bocca. Era una domanda così stupida ed inutile, ma non sapevo che fare. Dovevo dirgli la verità o no? Cosa dovevo fare? Entrai nel panico e continuai a fissarlo per alcuni secondi senza aprir bocca. Sentivo che gli occhi di mia madre e quelli di Davide mi scrutavano, alla ricerca di un perché del mio silenzio.
- Avete litigato di recente? – mi ripeté.
Annuii quasi impercettibilmente, una lievissima scossa del capo seguita da un sibilo affermativo.
- Sì, avevamo litigato mercoledì. – dissi. Del resto era la verità.
Mi affrettai ad aggiungere anche che, però, avevamo già sistemato tutto. “Per quanto si possa sistemare con Luca” pensai tra me e me.
Dopo avermi guardato abbastanza male, il commissario si congedò e disse che ci avrebbe chiamato più avanti per le deposizioni ufficiali. Potemmo quindi tornare a casa.
Durante il viaggio regnò il silenzio più totale. Arrivati, mia madre invitò Luca a rimanere a mangiare a pranzo, ma lui rifiutò gentilmente dicendo che doveva andare a casa perché non si sentiva tanto bene. Lo accompagnai alla moto, consapevole che mi avrebbe accusata di essere stata una stupida per essermi comportata in quel modo.
Finalmente alzò lo sguardo da terra e mi guardò negli occhi. C’era così tanta amarezza riflessa che mi sentii uno schifo totale. Non disse nulla: aveva capito che non occorrevano parole ma che era bastato il suo mesto sguardo per esprimere quello che pensava. Non mi risparmiò nulla: mi caricò sulle spalle tutta la colpa del fallimento della prima della nostra recita. Sembrava proprio che i suoi occhi dicessero “Sei una stupida” e probabilmente avrebbe fatto meno male sentirselo dire a parole.
- Che dovevo fare? – sbottai d’un tratto incollerita – È inutile che mi guardi così, mi fai solo che star peggio. È andata così.
- Hai ragione, scusa. Forse hai fatto anche bene a dire la verità, dimostri di non aver nulla da nascondere.
Ora iniziava ad arrampicarsi sugli specchi perché non aveva voglia di litigare. Era fatto così, ormai lo conoscevo. Il fatto, però, mi seccò ulteriormente.
- Senti, o sei incazzato o no. Non puoi cambiare umore così in un secondo. Vabbè, adesso sono nervosa ed è meglio se sto zitta, sennò poi dico cose di cui mi pento.
- Va bene. Ci vediamo dopo, se ci sono problemi ti chiamo. Ciao.
Entrai in casa e lo guardai andare via attraverso il vetro della finestra. Poi mi fiondai in camera e ci rimasi tutto il pomeriggio: non arrivò nessuna chiamata e tantomeno nessuna visita.


Capitolo 4

Il commissario rifletteva su quelle due lettere scritte dal morto prima che lasciasse questo mondo e sui due ragazzi con i quali aveva parlato il giorno prima. Il ragazzo era stato molto sicuro di sé e di ciò che aveva fatto, ma la ragazza era bloccata: dalla paura o dalla disperazione? Non riusciva a capirlo. Tuttavia il suo sesto senso gli diceva che il ragazzo aveva molte più cose da nascondere di quante non sembrasse averne la giovane. Nonostante ciò, però, avrebbe dovuto concentrarsi maggiormente sulla ragazza perché era più debole e sarebbe crollata molto facilmente. D’un tratto sentì bussare alla porta e fece capolino un giovane poliziotto. L’agente gli ricordò che dovevano andare a parlare con il dirigente della scuola che aveva frequentato il giovane morto.
Viaggiarono fino a Vicenza per entrare in una scuola vecchia e rovinata dove una vecchia bidella li accompagnò in presidenza.
- Salve signor preside, sono molto addolorato per la morte del vostro studente. – iniziò il commissario.
- Oh certo, purtroppo io non posso dire lo stesso: Luca Cecchetto era un bullo e un vandalo che mi aveva procurato più di qualche problema, non sono poi così dispiaciuto. – disse asciutto il preside.
- Sì, capisco cosa intende. – rispose allibito il poliziotto.
In quel momento gli cadde l’occhio su una delle carte che doveva firmare il dirigente: D.M. Benetti. Un altro D. M., non era possibile!
- Senta, avrei bisogno di accedere ai dati della scuola: sa magari potremmo scoprire qualcosa d’interessante. – s’inventò il commissario: voleva sapere se il preside c’entrava qualcosa e aveva bisogno che uscisse dalla stanza.
Il preside s’irrigidì e si mise a pensare: fu molto faticoso per lui riuscire a dare una risposta positiva ai due poliziotti.
- Va bene, se vuole seguirmi le posso mostrare dove sono pagelle, verifiche e tutto il resto del materiale inerente al giovane morto. – continuò il dirigente.
- No guardi, aspetto qui e lei vada a prendere pure la documentazione. – rispose irremovibile il commissario.
- Va bene, come vuole. – acconsentì riluttante il preside uscendo dalla stanza.
“Se voleva che uscissimo evidentemente deve avere qualcosa da nascondere in questa stanza, anche perché quando gli ho domandato di approfondire inizialmente si era tirato indietro.” pensava il commissario.
- Agente, guardi in quella metà della stanza: cassetti, armadio e quanto fa in tempo a rovistare. Mi raccomando però, non lasci tutto in disordine, perché non si deve capire che abbiamo guardato senza mandato. – ordinò il commissario al suo sottoposto.
- Agli ordini, signore.
Aprirono ogni anta e rovistarono in ogni cassetto guardando all’interno di ogni busta. C’erano una gran quantità di documenti riguardanti la scuola, qualche giornale di vecchia data e una rivista di moto, vecchia di un anno. Era completamente diversa rispetto a tutti altri oggetti presenti nel cassetto nel quale stava rovistando il commissario. Stava per aprirla, ma ripose tutto quanto aveva in mano quando sentì la porta aprirsi.
- Ecco a voi tutti i documenti presenti in questa scuola su Luca Cecchetto. – disse il preside appoggiando un notevole pacco di fogli che aveva tutta l’aria di essere molto pesante.
- La ringrazio. - disse il commissario iniziando il lavoro.
Rimasero a lungo tutti e tre nella stanza: il preside comodamente sdraiato sulla sua poltroncina e i due poliziotti, indaffarati a cercare informazioni. Lavoravano senza parlare, perché non volevano fare sapere al preside i sospetti che potevano avere su di lui.
Improvvisamente il dirigente fu chiamato al telefono e così i due poliziotti si trovarono a parlare indisturbati.
- Signore, da un anno i voti del ragazzo sono aumentati enormemente e, inoltre, non ha più avuto un singolo richiamo scritto.
- Sì, anche io ho notato questo fatto molto strano. – continuò pensieroso il preside. Quando gli venne in mente della rivista di motociclette nel cassetto.
c Decise di leggerla ad alta voce, per rendere partecipe anche il suo sottoposto di ciò che aveva rinvenuto.
- Gentile signor D.M., con non grande sorpresa ho scoperto della sua relazione con una studentessa di seconda, di cui però non ricordo il nome. L’ho vista ieri, mentre stavo per venire per l’ennesima volta a trovarla in presidenza, mentre vi scambiavate effusioni. Ho pensato bene di non disturbarla perché mi sembrava alquanto preso dal momento. Ma un preside come lei saprà bene che queste cose non vanno fatte e che se venisse a saperlo casualmente la polizia lei finirebbe in guai seri. Noi non vogliamo, però, che nessuno abbia seccature. Purtroppo, come lei ben sa io ho qualche problemino a scuola, ma sono certo che con il suo aiuto riuscirò a superare queste mie difficoltà e anche i due anni che mi rimangono da frequentare in questa scuola senza ulteriori bocciature. Spero lei capisca la sua situazione e la mia, in modo da poter rimediare nel migliore dei modi. Firmato: Luca Cecchetto.
Il commissario era sconvolto, questa lettera stravolgeva tutte le sue supposizioni. Questo significava che D.M. non era riferito a uno dei due ragazzi, ma che era riferito al preside che, stanco dei ricatti subiti dal giovane bullo, aveva deciso di ammazzarlo. I poliziotti erano talmente assorti nelle loro congetture che non si accorsero che proprio in quell’istante era entrato il preside.
Il direttore, alla vista della lettera che ben conosceva in mano al commissario sbiancò e, preso dal panico, si fiondò sul foglio di carta nel tentativo di strapparlo dalle mani del poliziotto.
- Avete il mandato di perquisizione che vi autorizza a rovistare fra i miei oggetti? No? E allora io vi denuncio! – sbraitò il preside, folle di paura.
- Guardi che questa lettera era appoggiata su quella credenza, - disse mentendo il commissario – quindi non serve nessun mandato.
- No, quella lettera era ben riposta dentro ad un cassetto! – continuò urlando il direttore che era sempre più spaventato.
- Vede qualche cassetto aperto? – disse il poliziotto più giovane che aveva ben pensato, mentre il commissario leggeva la lettera, di sistemare prima la rivista e poi il cassetto nello stesso modo in cui li avevano trovati.
- No, tutto è in ordine. – disse con un tono rassegnato il preside – Però non sono stato io ad uccidere il ragazzo, anche se avrei tanto voluto stringerlo tra le mie mani quel ricattatore bastardo. – riprese ad urlare.
- Questo lo decideremo in centrale e andando avanti con le indagini.
- No, ve lo posso assicurare io: sabato sera ero a cena fuori, in un ristorante e il titolare può confermare la mia presenza.
- Era da solo? – domandò il commissario.
- Veramente ero con un’altra persona. – rispose rimanendo sul vago.
- Era in compagnia della ragazza di cui si parla in questa lettera? – continuò il poliziotto, sicuro di avere la situazione in pugno.
Il preside annuì e i poliziotti lo portarono in centrale: anche nel caso che non fosse lui l’assassino di Luca Cecchetto, aveva pur sempre avuto dei rapporti con una minorenne e al commissario atti come questo facevano imbestialire quasi quanto un omicidio.


Capitolo 5

Il commissario fissava assorto il paesaggio fuori dalla finestra. Cresceva dentro di lui il presentimento che fosse stato il preside pedofilo ad uccidere il ragazzo. Nella lettera ricattatoria che Luca gli aveva scritto, oltretutto, lo chiamava D.M., proprio come aveva scarabocchiato sulla neve. Era certo che fosse stato il preside ad ammazzarlo: se lo immaginava che gli sbatteva la testa contro il muro. L’unico problema è che se una persona ha intenzione di ucciderne un’altra, non lo fa tirando testate contro un muro, pensava il poliziotto. Questo fatto non lo convinceva nemmeno un po’ e gli dava molto da pensare.
Dopo aver bussato, entrò nella stanza l’agente con cui il giorno prima aveva scoperto la tresca del direttore.
- Signore, la ragazza ha confermato l’alibi del preside. – comunicò tutto d’un fiato il giovane.
- È facile che stia mentendo, non dobbiamo darle troppo credito. – rispose il commissario, dentro di sé profondamente convinto che il colpevole fosse il preside.
- Ma signore, anche il proprietario del ristorante, un caro amico del direttore, conferma la loro storia. – continuò il poliziotto.
- Potrebbe essere anche lui un bugiardo che vuole coprire il suo caro amico pedofilo. – il commissario non voleva credere che fosse stato qualcun altro all’infuori del preside.
- Non possiamo condannarlo per pedofilia. Signore, la ragazza si è dichiarata innamorata del preside e dice di non aver subito alcuna violenza o comunque di non essere mai stata trattata male. Tutto ciò che ha fatto, l’ha fatto di sua spontanea volontà.
- Dannazione, saremo costretti a rilasciarlo.
- Temo di sì signore.
Non andai a scuola la mattina, ero troppo stravolta. Aspettai per tutta la mattinata una chiamata di Davide che non arrivò. Così, nel primo pomeriggio decisi di chiamarlo e ci accordammo per trovarci mezz’ora dopo alla panchina. Mi misi addosso le prime cose che trovai, mi truccai ed uscii di casa, con grande sorpresa di mia madre: non uscivo dalla mia stanza da più di ventiquattr’ore, nemmeno per andare in bagno e così di punto in bianco andavo fuori casa senza nessun apparente motivo.
Quando arrivai ero in anticipo di almeno un quarto d’ora, ma lui era già lì. Mi sedetti di fianco a lui e, dopo un lungo silenzio, gli feci la domanda che mi tormentava da sabato sera:
- Secondo te finiremo in prigione?
- Penso di no e comunque non ce lo meritiamo. È stato solo uno stupido incidente. – mi rispose guardandomi dritta negli occhi.
- Ma allora non ci converrebbe confessare? Almeno se diciamo la verità non rischiamo tanto.
- Io non voglio finire in galera, nemmeno per cinque minuti.
- Ma se ci sgamano ci rimarremo per vent’anni, invece per un omicidio colposo ti prendi cinque anni al massimo. Alla fine ci rimarremmo per due anni, contando la buona condotta e il fatto che siamo minorenni.
- Anche se non confessiamo la sua morte è avvenuta per sbaglio, quindi gli anni sono sempre gli stessi. – mi rispose con un tono a mezza via tra il sarcastico e l’arrabbiato.
- Sì, ma capisci che se abbiamo sempre raccontato loro palle non ci crederanno quando diremo che l’abbiamo ammazzato per sbaglio, ma supporranno che l’abbiamo ucciso volontariamente. – continuai nel tentativo di convincerlo – Secondo me dovremmo dire come sono andate le cose realmente, rischiamo molto meno.
- No, dobbiamo stare zitti Mary, anche perché sei tu quella messa peggio e che rischia di rimetterci di più. Inoltre fai diciotto anni fra due mesi, quindi per il processo potresti già essere maggiorenne. Io almeno li compio quest’estate ed è improbabile che il processo sia ancora in corso. – mi disse grave Davide.
- E allora confessiamo subito, così non corro il rischio di essere maggiorenne per il processo. – mi alzai e lo presi per mano – Andiamo subito in commissariato e raccontiamo loro la verità!
Si alzò, ma rimase fermo sul posto, nonostante io lo tirassi per la manica nel tentativo di andarcene.
- Davide ti prego, io non voglio rovinarmi la vita per uno stupido incidente! – gli dissi con le lacrime agli occhi – Andiamo, ti prego!
- Dai Mary, non fare così. – mi disse abbracciandomi - Se non vuoi rovinarti la vita, non andare a dire nulla ai poliziotti. Se avessero avuto realmente dei sospetti su di noi, adesso saremmo là da loro ad essere interrogati. Ma non ci siamo, quindi non pensano che siamo stai noi.
- Ma invece l’hanno capito ieri, quando mi sono bloccata e non ho saputo come comportarmi. L’hai visto come mi ha guardata? Come se avesse esaminato la mia mente e leggendo fra i miei ricordi avesse capito che avevo ammazzato Luca.
- Se fosse realmente così ora saresti già in cella. Ma loro non hanno capito assolutamente niente, non hanno capito che siamo stati noi. E noi dobbiamo continuare a non farglielo intuire, dobbiamo recitare bene la nostra parte. Ora loro ti assilleranno di domande perché hanno capito che sei più debole. Ma tu non cederai e dimostrerai loro che sei forte e che con l’omicidio non c’entri nulla. Ok?
Annuii, incapace di frenare le lacrime. Fino a un secondo fa ero assolutamente convinta che avremmo dovuto confessare tutto ciò che avevamo fatto ed ora ero persuasa del contrario, ero certa che non avremmo mai e poi mai detto una parola. Mi sarei fatta un applauso per la mia coerenza, ma ero troppo occupata a disperarmi fra le braccia di Davide.
Fummo interrotti da una chiamata sul mio cellulare: era mia madre.
- Pronto mamma? – risposi.
- Mary, tu e Davide dovete tornare in questura. Hanno bisogno di voi.
Non risposi. Qualunque cosa avessi detto, sarebbe stata una maledizione contro me, Davide, Luca, la polizia e tutta questa dannata vita. Questa volta Davide non aveva avuto ragione nonostante la sua perfezione.


Capitolo 6

Il commissario ci aveva chiamati in centrale per le deposizioni ufficiali. Quando entrammo ci stava già aspettando nella stanza degli interrogatori, appena ci vide ci venne incontro e ci fece accomodare.
Dopo averci fatto alcune domande di cortesia, ci chiese se sapevamo qualcosa riguardo ad un ricatto che Luca stava attuando verso il preside della sua scuola. Io non ne sapevo nulla e nemmeno Davide, deve essere stato uno dei trucchi bastardi che fanno i poliziotti.
Ci chiese poi se eravamo pronti ad iniziare, e partimmo con le domande.
- Dove eravate la sera dell'omicidio, precisamente intorno alle ventitré e trenta?
- Eravamo a casa mia a dormire. - rispose Davide con tono sicuro.
Io mi limitai a fare un piccolo cenno come per dargli ragione, ma avevo le labbra cucite e le mie mani sudavano. Intanto il commissario segnava le risposte che gli fornivano in un taccuino.
Proseguì con le domande:
- Fino a che ora avete detto di essere stati al parco per aspettare Luca?
- Siamo arrivati alle 21, l'ora del ritrovo e abbiamo deciso di andarcene alle ventidue e trenta.- rispose nuovamente Davide.
- Conferma signorina Dall'Igna?- fece il commissario guardandomi dritta negli occhi.
- Si si – risposi con una voce molto incerta e tremante.
Andò avanti con domande di ogni genere riguardanti quella dannata sera. Finché a un certo punto il suo sguardo si fece più serio.
- Confermate tutte le informazioni che state fornendo?- ci domandò con aria sospetta.
- Si - rispondemmo all'unisono riflettendo sul perché di questa diffidenza.
- Mi potreste scrivere il vostro nome e cognome su questo foglio, per cortesia. - ci chiese porgendoci un foglio.
Lo fissammo entrambi con gli occhi sbarrati senza capire il motivo di questa richiesta, tanto che Davide sbottò con tono un po’ troppo sprezzante:
- Le posso chiedere l'utilità di questo?
- Se non vi spiace, attenetevi alle richieste e non discutete. - chiuse il commissario, senza darci nessuna possibilità di replicare.
Scrivemmo i nostri nominativi nel foglio e lo osservammo con aria interrogativa, spiazzata ma soprattutto spaventata . Allora il commissario si mise a spiegare:
- La scientifica ha fatto dei rilevamenti sul luogo del delitto. Nella stradina che conduce al sito dove è stato commesso l’omicidio, piena di fanghiglia a causa della neve caduta, sono state rilevate le orme di tre persone con numeri di scarpe 43, 45, e 38. La taglia della vittima erano un 45 e immagino che le vostre siano un 43 e un 38. Inoltre si notano chiaramente le orme di solo due persone che si allontano. Voi potreste ribattere che sono di tempi differenti le vostre orme e quelle di Luca Cecchetto. Quindi, abbiamo una prova che vi inchioda: vicino al corpo della vittima abbiamo trovato le lettere D.M. scritte dal vostro amico prima che morisse, vi dicono nulla?
Lo guardammo sconvolti senza essere in grado di rispondere. Così lui continuò il suo monologo:
- Sono le iniziali di entrambi i vostri nomi: Maria Dall'Igna e Davide Marin. La vostre informazioni sono chiaramente false e la vostra situazione è alquanto grave. In questo momento un poliziotto sta informando i vostri genitori della vostra situazione e saranno qui a momenti. Nel frattempo è meglio che restiate con le guardie ad attendere il loro arrivo.-
Ci avevano incastrati: quello stronzo di Luca ci aveva fregati alla grande. Sul viso, ma soprattutto nell’animo di entrambi c'era puro terrore. La nostra vita era rovinata.
Le guardie si avvicinarono prima a Davide e, appena cercarono di prenderlo per un braccio, lui si divincolò. Si voltò verso di me e iniziò ad inveirmi contro in preda al panico e con il viso solcato da grosse e pesanti lacrime.
- È tutta colpa tua Mary! Non dovevi colpirlo, sei una stupida! È stata lei io non ho fatto nulla!
Io ero bloccata. Quello che mi stava dicendo il ragazzo di cui ero innamorata, il ragazzo perfetto era inconcepibile. Mi stava distruggendo con quelle parole, ero incapace di fare qualsiasi cosa all’infuori di fissare Davide dritta negli occhi. Perché aveva detto che l’avevo colpito?
Fortunatamente il commissario intervenne:
- Stia calmo sig. Marin. Portatelo via! - ordinò rivolto alle guardie.
Poi continuò guardando me:
- È lei allora la colpevole di questo omicidio?
Ero amareggiata e profondamente delusa dal tradimento di Davide. Inoltre ero terrorizzata dal commissario che mi fissava come se sapesse tutto ciò che era successo quella dannatissima sera. Scoppiai in lacrime e confessai quello che era accaduto al commissario.
- No! Non c’entro! - singhiozzai - Ci eravamo dati appuntamento fuori da quel maledetto parco. Quando Luca era arrivato aveva iniziato a fare lo stupido e a dare fastidio a Davide. Davide non è il tipo che si fa mettere i piedi in testa sicché lo spinse con forza per fargli capire di piantarla...e...e poi Luca è scivolato su quella dannata lastra di ghiaccio ed ha sbattuto la testa contro il muro. È successo tutto così in fretta, ma per sbaglio. È stato tutto uno stupidissimo errore che non doveva succedere, non è giusto. Siamo scappati perché avevamo paura e non avevamo idea di cosa fare. Pensavamo che fosse morto! Del resto non respirava più, che dovevamo fare? - e scoppiai in un pianto disperato mentre il commissario mi fissava. Sembrava quasi intenerito dal mio piccolo show.
- Signorina Dall’Igna, se aveste chiamato aiuto ora lui sarebbe molto probabilmente ancora vivo. E nonostante io creda a quello che mi sta dicendo, come faccio ad essere sicuro che quello che ci sta dicendo non sia una bugia? Può provare che non è stata lei a compiere l’omicidio? – mi domandò con sincera preoccupazione.
Il commissario mi stava credendo: sarebbe bastato ancora un poco e avrei avuto salva la pelle dalla prigione.
- Secondo lei una persona bassa e mingherlina come me sarebbe stata in grado di spingere Luca? Ha visto quanto era alto e ben piazzato? Inoltre prima Davide, ha detto che io avevo colpito Luca, quando non è vero: è stato spinto ed è scivolato. Non c’è nessun segno sul corpo che dimostri che io l’ho colpito, giusto? Perché non è così!
Non erano grandi prove, ma il poliziotto sembrava essere ben disposto nei miei confronti.
- Bene signorina, ora sono costretto a farla portar via dalle guardie. La ringrazio per la collaborazione.
Uscii dalla stanza e fui portata in una cella, da sola. E così rimasi per lungo tempo.

Non vidi più Davide fino al giorno del processo, svoltosi circa due settimane dopo il nostro arresto: il commissario mi aveva presa in simpatia e aveva fatto in modo che il processo si compisse il più in fretta possibile, in modo che fossi ancora minorenne per l’udienza. Davide continuò ad accusare me di essere la colpevole per tutto il periodo prima del processo e anche durante esso.
Quando il giudice della corte dei minori stabilì che a Davide spettavano cinque anni di reclusione con l’accusa di omicidio colposo e omissione di concorso una lacrima mi rigò il volto: l’uomo perfetto non va in prigione e, di certo, non tradisce i propri amici. Capii in quel momento che Davide non era affatto perfetto. Avevo sbagliato ancora una volta.
Dopodiché pronunciò la mia pena: sei mesi per omissione di soccorso. Stop! Avrei voluto andare ad abbracciare il giudice: non mi aveva nemmeno accusata di concorso in omicidio! Solo sei mesi e poi sarei potuta tornare alla mia vita normale.
Lasciai il processo tra due guardie con un mezzo sorriso in volto e un unico pensiero in mente: di certo ero la più grande e la più brava bugiarda al mondo perché Luca l’avevo spinto io, ero stata io ad ucciderlo!


Federica Magnabosco, Matteo Zoppello, Diego Lombarda.

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