Home Le sventurate avventure di Marco Brambilla A proposito dei laboratori... La mia verità Una vita da sogno

martedì 20 aprile 2010

Quarto racconto completo "Una vita da sogno"


Il signor Paolo aveva appena finito un estenuante turno di notte in ospedale. Lavorava come infermiere nel reparto di Geriatria: il suo compito era quello di cambiare pannoloni ad anziani autonomi quanto dei neonati e pulirli quando puntualmente si sporcavano durante i pasti. Paolo odiava la sua vita dedicata all’aiuto di quattro dementi e non sopportava l’idea che quei vecchiacci fossero le uniche persone che aveva. Egli era totalmente solo: scapolo quasi cinquantenne, non aveva mai avuto un amico nemmeno fra i suoi colleghi. Alla morte dei suoi genitori, avvenuta anni prima, si era trovato a vivere senza nessuno accanto. Più volte aveva tentato di mollare tutto e di uccidersi, ma ogni volta non aveva trovato il coraggio a farla finita definitivamente. Aveva sempre tentennato all’ultimo momento ed era tornato alla sua vita come nulla fosse....

lunedì 19 aprile 2010

Terzo racconto completo "La mia verità"



Il sangue sgorgava da quella sua lurida testa. Io e Davide guardavamo il corpo esanime di Luca steso a terra: l’avevamo ucciso. Eravamo stati noi due, insieme, anche se a spingerlo era stato solo uno eravamo entrambi colpevoli. Ma come si fa ad essere così idioti da scivolare sul ghiaccio e sbattere la testa contro il muro?
Non sapevo che fare, avevo paura. Mi voltai verso Davide, in cerca di un suo sguardo che potesse darmi forza. Era sempre sicuro di sé, protetto dai suoi muscoli e dal timore che incutevano nelle persone. Ma questa volta i suoi occhi brillavano alla luce fioca dell’unico lampione presente in strada.
- Che facciamo? – volevo rompere quel silenzio straziante, non ce la facevo più.
Nonostante tutto, però, non sentivo il bisogno di piangere. Luca era uno stronzo e di certo non sarebbe mancato a nessuno. Se l’era cercata la sua morte....

domenica 18 aprile 2010

Secondo racconto completo "A proposito dei laboratori..."



Eccomi seduta sul mio banco di scuola con la testa rannicchiata fra le braccia cercando di combattere il sonno che vuole impadronirsi di me mentre tento di seguire la lezione. Un giorno uguale ad altri mille, ma almeno oggi è sabato e così domani posso riposarmi un po’. Mancano solo due ore alla fine della giornata, perché oggi, dato che l’insegnante di matematica è assente, usciamo un’ora prima del solito. Dopodiché avrò la libertà di godermi il sabato pomeriggio e, addirittura, una domenica intera da mattina a sera....

sabato 17 aprile 2010

Primo racconto completo "Le sventurate avventure di Marco Brambilla"




Era una mattina uggiosa nella periferia di Milano. L’alba era da poco passata e l’umidità tipica d’inizio primavera, quando ancora c’è quell’aria fredda e invernale, penetrava nelle ossa di giovani e anziani. Alcune auto correvano svogliate sull’asfalto per una nuova, noiosa giornata di lavoro.
Ma quello era un giorno particolare per Marco Brambilla perché sarebbe dovuto andare al suo primo colloquio di lavoro: cameriere e barista in una trattoria fuori Milano. Trovò quel posto grazie ad uno stage con la scuola, l’Istituto Professionale Carlo Porta. Questo era il suo ultimo anno e voleva avere già un lavoro per quando non avrebbe più dovuto studiare. Marco era in terza BS e non era dotato di una grande intelligenza, anzi era piuttosto scemo, nonostante non fosse mai stato bocciato durante la sua carriera scolastica. Era un ragazzo dai capelli castano chiaro, come gli occhi: in realtà era una persona abbastanza anonima al primo impatto. Ma al Carlo Porta, tutti gli alunni e gli insegnanti avevano almeno una volta sentito parlare di lui: era molto ingenuo e si faceva fregare dalle persone spesso e con molta facilità. Per questa sua mancanza, era preso di mira da professori e studenti.
L’anno precedente un compagno gli aveva offerto una merendina.
- La macchinetta me l’ha data per sbaglio, a me non piace. Tienila – gli aveva detto.
In realtà il ragazzo, con i suoi amici, aveva messo del lassativo dentro la merenda....

domenica 11 aprile 2010

Una vita da sogno


Ecco pubblicato come d'anticipazione il quarto racconto

"Una vita da sogno"

Sperando che sia di vostro gradimento


Gli scrittori_improvvisati:
Federica Magnabosco, editor
Matteo Zoppello, webmaster
Diego Lombarda, creativo


Il signor Paolo aveva appena finito un estenuante turno di notte in ospedale. Lavorava come infermiere nel reparto di Geriatria: il suo compito era quello di cambiare pannoloni ad anziani autonomi quanto dei neonati e pulirli quando puntualmente si sporcavano durante i pasti. Paolo odiava la sua vita dedicata all’aiuto di quattro dementi e non sopportava l’idea che quei vecchiacci fossero le uniche persone che aveva. Egli era totalmente solo: scapolo quasi cinquantenne, non aveva mai avuto un amico nemmeno fra i suoi colleghi. Alla morte dei suoi genitori, avvenuta anni prima, si era trovato a vivere senza nessuno accanto. Più volte aveva tentato di mollare tutto e di uccidersi, ma ogni volta non aveva trovato il coraggio a farla finita definitivamente. Aveva sempre tentennato all’ultimo momento ed era tornato alla sua vita come nulla fosse.
Paolo era quasi arrivato a casa. Si trovava nella zona industriale del paesello prima di quello in cui abitava; il sindaco aveva evidentemente deciso di attuare una politica di risparmio energetico, perché non c’era nessun lampione acceso in tutta la zona. Gli alti muri che proteggevano le fabbriche, inoltre, non favorivano affatto la visuale. Ad ogni incrocio si rischiava la vita.
Paolo era assorto nel guardare il cielo che si stava preparando all’alba quando all’improvviso fece un incidente, il più grande della sua vita. Fu un colpo potentissimo e solo l’airbag protesse il suo naso da uno schianto colossale contro il volante. Anche il rumore non fu da meno e fu una fortuna che si trovassero nella deserta zona industriale, perché il boato sarebbe stato in grado di frantumare le finestre delle eventuali abitazioni.
Appena Paolo si riprese dallo shock, alzò lo sguardo per individuare chi era la persona con la quale si era appena scontrato. Non risparmiò nessuno nelle sue imprecazioni: fra tutte le macchine con cui poteva andare a scontrarsi, doveva proprio trovare una di quelle automobili sportive che si vedono solo sulle riviste? Era la più bella auto che Paolo avesse mai visto e questa era una gran brutta faccenda, perché certamente il proprietario avrebbe chiesto il pagamento di una somma improponibile per un povero infermiere di Geriatria, avrebbe fatto di tutto pur di riparare il suo amato gioiello dall’infinita cilindrata.
Scese dalla sua macchina sgangherata per dirigersi verso quell’auto da favola. Almeno avrebbe fatto il tentativo di scusarsi, nella speranza di trovare uno di quei fantomatici ricchi gentili che avrebbe compreso la sua situazione disperata e lo avrebbe risparmiato dal pagamento di decine di migliaia di euro.
Si avvicinò un po’ e notò un fatto molto molto spiacevole: il cranio dell’autista era appoggiato al finestrino, totalmente sporco di sangue, a peso morto. Si accorse anche che il parabrezza dell’auto era inesistente e che gran parte del cofano si era distrutta.
Paolo capì che quell’uomo non avrebbe mai potuto accettare le sue scuse.
Procedendo, notò con grande sconforto dei profondi tagli sul viso dell’uomo. Da lì il sangue usciva copiosamente e non accennava a smettere. Quando aprì la portiera l’uomo ben vestito, seppur totalmente insanguinato, cadde a terra morto.
Paolo cacciò un urlo disumano: quell’individuo era uguale in tutto e per tutto a lui. L’infermiere sbiancò, non aveva mai visto in vita sua una persona che gli somigliasse così tanto nell’aspetto. Era la sua copia; anzi, era ancora più uguale a lui di una sua copia.
Mentre era ancora in preda al panico, a Paolo venne un’idea perversa: di certo un uomo così ricco e ben abbigliato doveva essere felice. Incuriosito, cercò all’interno della giacca il portafoglio e, ancor prima di controllare la quantità di denaro che aveva con sé, esaminò la carta d’identità. Essa diceva che l’uomo era sposato e di certo la moglie doveva essere una gran bella donna, che aveva approfittato dell’ottima situazione economica di quello stempiato grassone.
Paolo decise che era giunto il suo momento; aveva vissuto un’esistenza infelice, ma ora avrebbe cambiato le cose: voleva avere delle persone accanto, avere un bel lavoro che gli procurasse tanti soldi. Voleva semplicemente essere felice e l’uomo che aveva appena ucciso lo era stato di certo, lo si leggeva in quella sua faccia paffuta. Nessuno non si sarebbe accorto dello scambio d’identità e il morto di certo non avrebbe avuto nulla da ridire.
Iniziò quindi a prendere gli oggetti dal cadavere: i suoi documenti, cellulare, agende e tutto il resto ad eccezione dei vestiti, che erano troppo insanguinati. Lo trascinò di peso, con molta fatica, nella sua auto scassata e lo mise al volante. Spaccò il parabrezza, utilizzando il cric che aveva nel bagagliaio, in modo da giustificare i tagli che aveva sul volto.
Paolo si sentì soddisfatto del lavoro compiuto ed eccitato al pensiero della nuova vita che avrebbe vissuto. Ripudiò l’uomo che era stato e si sbarazzò di quell’identità che non lo riguardava più, come si fa con i vecchi vestiti ormai troppo stretti e consumati. Non sarebbe mai più stato l’infermiere Paolo da quel momento. Guardò di nuovo la carta d’identità per scoprire i suoi nuovi dati personali: Gennaro Corleone, nato a Corleone il 15 aprile 1960, altezza un metro e sessantacinque dai capelli brizzolati e occhi castani.
Salì a bordo della sua bella auto sportiva perché, nonostante fosse distrutta, non poteva lasciarla lì. L’avrebbe portata dal meccanico di fiducia e l’avrebbe pagato anche per il suo silenzio, tanto poteva permetterselo. Nonostante qualche difficoltà iniziale mise in moto la macchina e, dopo aver verificato la sua residenza, si diresse in direzione della sua nuova casa.
Mentre guidava, gli venne in mente che era strano che un uomo circolasse alle sei del mattino, a meno che non dovesse andare da qualche parte. In tal caso andare a casa sarebbe stata una mossa sbagliata. Gennaro prese quindi la sua agendina rossa per scoprire per quale motivo era in giro a quell’ora. Apprese che stava rientrando da Palermo, dove era rimasto per tre giorni e che, quella notte, aveva avuto un incontro con Veruska. Poteva quindi andare a casa tranquillamente.
Quel nome, però, si ripeteva almeno una volta alla settimana, di certo era la sua amante. Gennaro si lasciò sfuggire un sorriso: cosa avrebbe potuto desiderare di più di una biondona russa pronta ad esaudire ogni suo desiderio? Proprio non lo immaginava.
Gennaro guidò pensando a quanto era fortunato, quando la voce meccanica del navigatore, del quale aveva scoperto l’esistenza a metà del viaggio e capito il funzionamento ben più tardi, gli comunicò che erano arrivati a destinazione. Si fermò davanti alla più bella visione del mondo: c’era uno sterminato giardino dall’erba color smeraldo e sullo sfondo si vedevano vastissimi campi, un lungo viale alberato collegava l’entrata alla casa. Era spettacolare: di color panna aveva degli enormi porticati, grandi e numerose finestre su ogni lato e moltissimi poggioli arredati con tavolini dove prendere il caffè. Gennaro era sicuro di essere entrato in paradiso. Si era abituato al suo monolocale puzzolente e ora gli sembrava impossibile pensare a quella reggia come alla sua casa.
Scese dall’automobile per aprire l’imponente cancellata di ferro. Mentre camminava pestò un gigantesco escremento di cane, era veramente spropositato. Gennaro però non si arrabbiò, era troppo estasiato. Si limitò a pensare che nella più grande casa che avesse mai visto, dovevano per forza esserci anche le più grandi feci che avesse mai visto. E poi portavano solo che fortuna.
Dopodiché salì in auto incurante della puzza proveniente dalle sue scarpe laccate e portò l’auto davanti alla casa. Pensò che appena entrato ci sarebbe stato un maggiordomo pronto a servirlo che avrebbe anche sistemato l’auto nel garage. Quando entrò nel palazzo non poté fare altro che notare lo stile e il buon gusto con il quale era stato arredato il palazzo, tanto da farlo sembrare l’abitazione del più potente fra i re. Ma le sue aspettative riguardo al maggiordomo furono deluse: nessuno accorse verso Gennaro desideroso di servirlo. Così tornò fuori e decise di parcheggiare l’automobile sul retro.
Appena svoltò l’angolo notò una grande monovolume nero, dai finestrini oscurati e l’immenso bagagliaio. La classica auto che non promette nulla di buono. Mentre la sorpassava, si accorse che la porta scorrevole era aperta e Gennaro guardò all’interno: c’erano dei grossi sacchi neri, simili a quelli utilizzati per l’immondizia, che erano pieni di “qualcosa”. Gennaro fu tentato di andare a scoprire cosa vi fosse all’interno, ma concluse che era meglio non indagare. Di certo, viste le generalità, il vecchio signor Corleone doveva essere nel giro della malavita siciliana e Gennaro non era sicuro di voler sapere in che modo avessero riempito quei sacchi.
Parcheggiò l’auto poco più avanti ed entrò in casa da una porta di servizio che si trovava di fianco al monovolume. Gennaro non diede peso al fatto che essa era stata lasciata aperta, ma entrò in scioltezza dentro casa, chiudendo dietro di se l’ingresso.
Si trovò in cucina, dove era tutto molto pulito ed ordinato. Ovviamente, il locale era molto più grande di quanto non lo fosse di norma una cucina. Si diresse frettolosamente verso l’uscita, aveva un gran sonno addosso e pensava solo a cercare un letto dove poter dormire. Mentre stava per abbassare la maniglia, notò un grande ceppo di coltelli, interamente vuoto. Quella vista gli procurò un gran brutto presentimento e un profondo brivido lungo la schiena: per quale motivo non c’era nemmeno un singolo coltello sul ceppo? A cosa servono dei coltelli alle sei di mattina? Gennaro capì che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in quell’assenza, ma la pigrizia si impadronì di lui e lo guidò fuori dalla stanza.
Quando era entrato per la prima volta in casa, dall’entrata principale, aveva notato delle belle scale che conducevano al piano superiore. Di certo, pensava Gennaro, le stanze da letto si dovevano trovare là, e così si diresse verso di esse. Mentre camminava, sentì il debole grido di un bambino. Gennaro si stupì di tale fatto: allora anche in paradiso esistevano gli incubi. Trovò che fosse molto strano che un bambino così benestante potesse fare brutti sogni la notte, la prese quasi come un’offesa personale al povero Paolo.
Salì le scale e si mise a cercare la stanza matrimoniale. Entrò in innumerevoli ambienti: le camerette di due ragazzi troppo grandi per gridare ancora nel sonno, due camere vuote di cui una molto disordinata, una lavanderia, svariati studi e anche una sala da pranzo. Era rimasta solo una stanza e certamente doveva essere quella in cui avrebbe potuto dormire.
Entrò in fretta, perché era molto curioso di vedere che aspetto poteva avere la moglie di un potente boss della mafia, con il quale aveva finito per identificare il vecchio signor Corleone.
Le sue speranza furono ampiamente saziate: su quel letto dormiva una donna bellissima, dai tipici tratti mediterranei. Gennaro proprio non riuscì a capire con quale coraggio il vecchio signor Corleone avrebbe potuto tradire una donna così. Anche se Veruska fosse stata la più bella signorina di tutta la Russia, sua moglie non meritava di certo un tradimento.
Gennaro proprio non capiva il vecchio signor Corleone. Aveva tutto: un’automobile da favola, una casa che sembrava la residenza di un re e la donna più eccezionale di tutta Italia; aveva una vita da sogno, quella che tutti sognano, Paolo compreso. Eppure era andato a sprecar tutto: non era mai in casa, come si poteva notare dall’agenda, tradiva la moglie con un russa qualsiasi e non stava un minimo attento quando guidava l’auto, tanto da fare un incidente mortale. Ora, però, Gennaro avrebbe approfittato di tutte le comodità delle quali si era disinteressato il vecchio signor Corleone. Avrebbe vissuto lui una vita da sogno.
Quando fu soddisfatto della contemplazione della bella donna distesa sul letto, si accinse a coricarsi di fianco a lei. Alzò le pesanti coperte ricamate e vi si infilò sotto.
Appena sfiorò il lenzuolo, sentì che era bagnato. Incuriosito, volle capire la causa di quella spiacevole sensazione e, quando vide cos’era, lanciò un urlo incredibile. Sulle lenzuola c’era una grandissima macchia di sangue. Alzando un po’ lo sguardo notò che la donna era stata accoltellata più volte sull’addome con inaudita violenza.
Ora Gennaro riuscì a congiungere tutti i suoi cattivi presentimenti: i sacchi dentro l’auto nera contenevano i corpi già caricati, il ceppo era vuoto perché i coltelli erano serviti per ammazzare tutte le persone in casa, mentre il bambino che aveva gridato non stava facendo un incubo, ma si era svegliato durante il suo assassinio.
Gennaro fu preso dal panico: c’erano degli assassini mafiosi in casa sua, pronti ad ucciderlo per regolare un conto vecchio probabilmente di decine anni. Gennaro avrebbe dovuto dare ascolto al suo sesto senso, che gli aveva ripetetuto in continuazione di uscire da quella casa.
Stava decidendo come comportarsi quando sentì dei pesanti passi che correvano lungo il corridoio. Stavano venendo nella sua direzione. Stavano venendo a prenderlo.
Si guardò attorno disperato, in cerca di una via di fuga da quei criminali, ma non trovò null’altro che il balcone, dove si rifugiò. Fortunatamente a poco più di un metro da esso, si trovava un altro poggiolo. Di certo Gennaro non aveva il fisico di una persona che si arrampica abitualmente sui tetti per scappare da assassini mafiosi, ma ci mise tutto il suo impegno.
Riuscì ad atterrare nel terrazzo di fianco per un pelo, tanto che Gennaro si era già visto schiantato a terra. Entrò nella stanza che dava su quel balcone e si trovò in uno studio. Grazie all’aiuto di qualche santo, la stanza era vuota. Cercando di fare il meno rumore possibile uscì in corridoio: c’era un omaccione armato di pistola che impediva il passaggio delle scale da cui era salito. Gennaro non aveva scampo: non conosceva la casa, dunque non sapeva se vi fosse qualche altra via d’uscita e non poteva entrare in stanze caso pregando che fossero vuote. Non sapeva cosa fare, ma qualunque cosa avesse fatto, sarebbe certamente morto.
Decise di provare a guardare nella sala che aveva di fronte, nella speranza di trovare un qualche modo di uscire e stava proprio attraversando il corridoio quando quell’ammasso di muscoli si girò e lo vide.
- Non ti muovere, – ordinò con forte accento palermitano – o ti piazzo una pallottola il mezzo alla testa.
- S-s-sì, starò f-f-fermo. – balbettò Gennaro. E pensò che per quanto quella casa fosse magnifica, era troppo movimentata per i suoi gusti. – Posso farle notare che non sono io il signor Corleone, ma che c’è stato uno scambio? – propose esitante.
- Questa è buona! Giuseppe, Carmine! – iniziò a chiamare l’omaccione, tenendo sempre la pistola ben puntata su Gennaro – L’ho trovato, venite qui!
Gennaro capì che era impossibile persuaderli che egli non era lui l’uomo che cercavano, ma che era solamente una persona identica in tutto e per tutto al vecchio signor Corleone.
Si precipitarono due delinquenti, meno palestrati del primo, ma decisamente più spaventosi: avevano in ciascuna mano un coltellaccio ed entrambi guardavano Gennaro con occhi assetati di sangue e un ghigno famelico.
- Il capo ha detto di farlo fuori subito. – disse uno dei due – Ma soprattutto ha detto di farlo soffrire molto! – concluse con un gran sorriso.
- Carmine, stai zitto! Non vorrai spaventare il signor Corleone. – ringhiò con tono ironico l’altro, che aveva tutta l’aria di essere quello con più autorità fra i tre. Poi si rivolse a Gennaro – Mi presento: sono il signor Giuseppe, un caro amico di Calogero Calò. Le dice niente questo nome?
- N-no. – rispose titubante Gennaro.
- Male, molto male. Avete rubato al signor Calò molto denaro, nonostante egli fosse stato molto buono con voi in passato. Vi ha fatto uscire di prigione il signor Calò, rammentate?
Gennaro rimase zitto, non sapendo come rispondere. Ma l’unica cosa che ottenne con il silenzio fu un poderoso ceffone da parte di Giuseppe, con risolino annesso degli altri due balordi.
- Quando faccio una domanda, non amo che non mi si risponda. Chiaro?
Gennaro annuì appena appena. Voleva morire, non aspettava altro. Una morte veloce e indolore che lo avrebbe finalmente mandato all’altro mondo, perché questo era stato troppo crudele.
- Salvo, dammi la pistola che questo mi sa che non ha ben capito. – disse Giuseppe rivolto allo sgherro che l’aveva trovato.
Questi gliela lanciò, ma Giuseppe non riuscì a prenderla al volo.
L’arma cadde, invece, addosso a Gennaro. Non aspettò nemmeno un secondo, Gennaro prese la pistola e si sparò dritto in gola.
Mentre lo fece, non rivisse la propria vita, probabilmente perché non c’era nulla d’interessante da rivivere. Non pensò a nessuno dei suoi cari, perché non ne aveva avuti. Rimuginò solo sul fatto che per riuscire ad andarsene da quel mondo che aveva tanto odiato, aveva dovuto cambiare identità e rischiare di essere brutalmente assassinato da alcuni mafiosi che lo avevano scambiato per un’altra persona.
Non aveva avuto coraggio neanche nel morire: premette il grilletto solo per paura di fare una fine peggiore. Non aveva fatto proprio nulla nella sua vita d’incubo che meritasse di essere rivissuto.


Federica Magnabosco, Matteo Zoppello, Diego Lombarda.

giovedì 8 aprile 2010

News!


A breve il nuovo racconto, il quarto per la precisione. Esso dovrà affrontare l’argomento “scambio d’identità”. Sì, solo questo spunto abbiamo, nient’altro niente di più, il resto sarà dettato esclusivamente dalla nostra fantasia.

Come successiva anticipazione possiamo solamente dirvi questo: il titolo sarà “Una vita da sogno”.

Sperando di avervi incuriositi.

Gli scrittori_improvvisati

Federica Magnabosco, Matteo Zoppello, Diego Lombarda.

giovedì 18 marzo 2010

Capitolo 6

"Uscii dalla stanza e fui portata in una cella, da sola. E così rimasi per lungo tempo."

Ecco finalmente pubblicato il sesto ed ultimo capitolo del nostro racconto.

Buona lettura!

Gli scrittori_improvvisati

Capitolo 6

Il commissario ci aveva chiamati in centrale per le deposizioni ufficiali. Quando entrammo ci stava già aspettando nella stanza degli interrogatori, appena ci vide ci venne incontro e ci fece accomodare.
Dopo averci fatto alcune domande di cortesia, ci chiese se sapevamo qualcosa riguardo ad un ricatto che Luca stava attuando verso il preside della sua scuola. Io non ne sapevo nulla e nemmeno Davide, deve essere stato uno dei trucchi bastardi che fanno i poliziotti.
Ci chiese poi se eravamo pronti ad iniziare, e partimmo con le domande.
- Dove eravate la sera dell'omicidio, precisamente intorno alle ventitré e trenta?
- Eravamo a casa mia a dormire. - rispose Davide con tono sicuro.
Io mi limitai a fare un piccolo cenno come per dargli ragione, ma avevo le labbra cucite e le mie mani sudavano. Intanto il commissario segnava le risposte che gli fornivano in un taccuino.
Proseguì con le domande:
- Fino a che ora avete detto di essere stati al parco per aspettare Luca?
- Siamo arrivati alle 21, l'ora del ritrovo e abbiamo deciso di andarcene alle ventidue e trenta.- rispose nuovamente Davide.
- Conferma signorina Dall'Igna?- fece il commissario guardandomi dritta negli occhi.
- Si si – risposi con una voce molto incerta e tremante.
Andò avanti con domande di ogni genere riguardanti quella dannata sera. Finché a un certo punto il suo sguardo si fece più serio.
- Confermate tutte le informazioni che state fornendo?- ci domandò con aria sospetta.
- Si - rispondemmo all'unisono riflettendo sul perché di questa diffidenza.
- Mi potreste scrivere il vostro nome e cognome su questo foglio, per cortesia. - ci chiese porgendoci un foglio.
Lo fissammo entrambi con gli occhi sbarrati senza capire il motivo di questa richiesta, tanto che Davide sbottò con tono un po’ troppo sprezzante:
- Le posso chiedere l'utilità di questo?
- Se non vi spiace, attenetevi alle richieste e non discutete. - chiuse il commissario, senza darci nessuna possibilità di replicare.
Scrivemmo i nostri nominativi nel foglio e lo osservammo con aria interrogativa, spiazzata ma soprattutto spaventata . Allora il commissario si mise a spiegare:
- La scientifica ha fatto dei rilevamenti sul luogo del delitto. Nella stradina che conduce al sito dove è stato commesso l’omicidio, piena di fanghiglia a causa della neve caduta, sono state rilevate le orme di tre persone con numeri di scarpe 43, 45, e 38. La taglia della vittima erano un 45 e immagino che le vostre siano un 43 e un 38. Inoltre si notano chiaramente le orme di solo due persone che si allontano. Voi potreste ribattere che sono di tempi differenti le vostre orme e quelle di Luca Cecchetto. Quindi, abbiamo una prova che vi inchioda: vicino al corpo della vittima abbiamo trovato le lettere D.M. scritte dal vostro amico prima che morisse, vi dicono nulla?
Lo guardammo sconvolti senza essere in grado di rispondere. Così lui continuò il suo monologo:
- Sono le iniziali di entrambi i vostri nomi: Maria Dall'Igna e Davide Marin. La vostre informazioni sono chiaramente false e la vostra situazione è alquanto grave. In questo momento un poliziotto sta informando i vostri genitori della vostra situazione e saranno qui a momenti. Nel frattempo è meglio che restiate con le guardie ad attendere il loro arrivo.-
Ci avevano incastrati: quello stronzo di Luca ci aveva fregati alla grande. Sul viso, ma soprattutto nell’animo di entrambi c'era puro terrore. La nostra vita era rovinata.
Le guardie si avvicinarono prima a Davide e, appena cercarono di prenderlo per un braccio, lui si divincolò. Si voltò verso di me e iniziò ad inveirmi contro in preda al panico e con il viso solcato da grosse e pesanti lacrime.
- È tutta colpa tua Mary! Non dovevi colpirlo, sei una stupida! È stata lei io non ho fatto nulla!
Io ero bloccata. Quello che mi stava dicendo il ragazzo di cui ero innamorata, il ragazzo perfetto era inconcepibile. Mi stava distruggendo con quelle parole, ero incapace di fare qualsiasi cosa all’infuori di fissare Davide dritta negli occhi. Perché aveva detto che l’avevo colpito?
Fortunatamente il commissario intervenne:
- Stia calmo sig. Marin. Portatelo via! - ordinò rivolto alle guardie.
Poi continuò guardando me:
- È lei allora la colpevole di questo omicidio?
Ero amareggiata e profondamente delusa dal tradimento di Davide. Inoltre ero terrorizzata dal commissario che mi fissava come se sapesse tutto ciò che era successo quella dannatissima sera. Scoppiai in lacrime e confessai quello che era accaduto al commissario.
- No! Non c’entro! - singhiozzai - Ci eravamo dati appuntamento fuori da quel maledetto parco. Quando Luca era arrivato aveva iniziato a fare lo stupido e a dare fastidio a Davide. Davide non è il tipo che si fa mettere i piedi in testa sicché lo spinse con forza per fargli capire di piantarla...e...e poi Luca è scivolato su quella dannata lastra di ghiaccio ed ha sbattuto la testa contro il muro. È successo tutto così in fretta, ma per sbaglio. È stato tutto uno stupidissimo errore che non doveva succedere, non è giusto. Siamo scappati perché avevamo paura e non avevamo idea di cosa fare. Pensavamo che fosse morto! Del resto non respirava più, che dovevamo fare? - e scoppiai in un pianto disperato mentre il commissario mi fissava. Sembrava quasi intenerito dal mio piccolo show.
- Signorina Dall’Igna, se aveste chiamato aiuto ora lui sarebbe molto probabilmente ancora vivo. E nonostante io creda a quello che mi sta dicendo, come faccio ad essere sicuro che quello che ci sta dicendo non sia una bugia? Può provare che non è stata lei a compiere l’omicidio? – mi domandò con sincera preoccupazione.
Il commissario mi stava credendo: sarebbe bastato ancora un poco e avrei avuto salva la pelle dalla prigione.
- Secondo lei una persona bassa e mingherlina come me sarebbe stata in grado di spingere Luca? Ha visto quanto era alto e ben piazzato? Inoltre prima Davide, ha detto che io avevo colpito Luca, quando non è vero: è stato spinto ed è scivolato. Non c’è nessun segno sul corpo che dimostri che io l’ho colpito, giusto? Perché non è così!
Non erano grandi prove, ma il poliziotto sembrava essere ben disposto nei miei confronti.
- Bene signorina, ora sono costretto a farla portar via dalle guardie. La ringrazio per la collaborazione.
Uscii dalla stanza e fui portata in una cella, da sola. E così rimasi per lungo tempo.

Non vidi più Davide fino al giorno del processo, svoltosi circa due settimane dopo il nostro arresto: il commissario mi aveva presa in simpatia e aveva fatto in modo che il processo si compisse il più in fretta possibile, in modo che fossi ancora minorenne per l’udienza. Davide continuò ad accusare me di essere la colpevole per tutto il periodo prima del processo e anche durante esso.
Quando il giudice della corte dei minori stabilì che a Davide spettavano cinque anni di reclusione con l’accusa di omicidio colposo e omissione di concorso una lacrima mi rigò il volto: l’uomo perfetto non va in prigione e, di certo, non tradisce i propri amici. Capii in quel momento che Davide non era affatto perfetto. Avevo sbagliato ancora una volta.
Dopodiché pronunciò la mia pena: sei mesi per omissione di soccorso. Stop! Avrei voluto andare ad abbracciare il giudice: non mi aveva nemmeno accusata di concorso in omicidio! Solo sei mesi e poi sarei potuta tornare alla mia vita normale.
Lasciai il processo tra due guardie con un mezzo sorriso in volto e un unico pensiero in mente: di certo ero la più grande e la più brava bugiarda al mondo perché Luca l’avevo spinto io, ero stata io ad ucciderlo!


Federica Magnabosco, Matteo Zoppello, Diego Lombarda.

giovedì 11 marzo 2010

Capitolo 5


"Fino a un secondo fa ero assolutamente convinta che avremmo dovuto confessare tutto [...] ed ora ero persuasa del contrario, ero certa che non avremmo mai e poi mai detto una parola."

Pubblichiamo ora il quinto capitolo.
Augurandovi una buona lettura.


Gli scrittori_improvvisati


Capitolo 5

Il commissario fissava assorto il paesaggio fuori dalla finestra. Cresceva dentro di lui il presentimento che fosse stato il preside pedofilo ad uccidere il ragazzo. Nella lettera ricattatoria che Luca gli aveva scritto, oltretutto, lo chiamava D.M., proprio come aveva scarabocchiato sulla neve. Era certo che fosse stato il preside ad ammazzarlo: se lo immaginava che gli sbatteva la testa contro il muro. L’unico problema è che se una persona ha intenzione di ucciderne un’altra, non lo fa tirando testate contro un muro, pensava il poliziotto. Questo fatto non lo convinceva nemmeno un po’ e gli dava molto da pensare.
Dopo aver bussato, entrò nella stanza l’agente con cui il giorno prima aveva scoperto la tresca del direttore.
- Signore, la ragazza ha confermato l’alibi del preside. – comunicò tutto d’un fiato il giovane.
- È facile che stia mentendo, non dobbiamo darle troppo credito. – rispose il commissario, dentro di sé profondamente convinto che il colpevole fosse il preside.
- Ma signore, anche il proprietario del ristorante, un caro amico del direttore, conferma la loro storia. – continuò il poliziotto.
- Potrebbe essere anche lui un bugiardo che vuole coprire il suo caro amico pedofilo. – il commissario non voleva credere che fosse stato qualcun altro all’infuori del preside.
- Non possiamo condannarlo per pedofilia. Signore, la ragazza si è dichiarata innamorata del preside e dice di non aver subito alcuna violenza o comunque di non essere mai stata trattata male. Tutto ciò che ha fatto, l’ha fatto di sua spontanea volontà.
- Dannazione, saremo costretti a rilasciarlo.
- Temo di sì signore.
Non andai a scuola la mattina, ero troppo stravolta. Aspettai per tutta la mattinata una chiamata di Davide che non arrivò. Così, nel primo pomeriggio decisi di chiamarlo e ci accordammo per trovarci mezz’ora dopo alla panchina. Mi misi addosso le prime cose che trovai, mi truccai ed uscii di casa, con grande sorpresa di mia madre: non uscivo dalla mia stanza da più di ventiquattr’ore, nemmeno per andare in bagno e così di punto in bianco andavo fuori casa senza nessun apparente motivo.
Quando arrivai ero in anticipo di almeno un quarto d’ora, ma lui era già lì. Mi sedetti di fianco a lui e, dopo un lungo silenzio, gli feci la domanda che mi tormentava da sabato sera:
- Secondo te finiremo in prigione?
- Penso di no e comunque non ce lo meritiamo. È stato solo uno stupido incidente. – mi rispose guardandomi dritta negli occhi.
- Ma allora non ci converrebbe confessare? Almeno se diciamo la verità non rischiamo tanto.
- Io non voglio finire in galera, nemmeno per cinque minuti.
- Ma se ci sgamano ci rimarremo per vent’anni, invece per un omicidio colposo ti prendi cinque anni al massimo. Alla fine ci rimarremmo per due anni, contando la buona condotta e il fatto che siamo minorenni.
- Anche se non confessiamo la sua morte è avvenuta per sbaglio, quindi gli anni sono sempre gli stessi. – mi rispose con un tono a mezza via tra il sarcastico e l’arrabbiato.
- Sì, ma capisci che se abbiamo sempre raccontato loro palle non ci crederanno quando diremo che l’abbiamo ammazzato per sbaglio, ma supporranno che l’abbiamo ucciso volontariamente. – continuai nel tentativo di convincerlo – Secondo me dovremmo dire come sono andate le cose realmente, rischiamo molto meno.
- No, dobbiamo stare zitti Mary, anche perché sei tu quella messa peggio e che rischia di rimetterci di più. Inoltre fai diciotto anni fra due mesi, quindi per il processo potresti già essere maggiorenne. Io almeno li compio quest’estate ed è improbabile che il processo sia ancora in corso. – mi disse grave Davide.
- E allora confessiamo subito, così non corro il rischio di essere maggiorenne per il processo. – mi alzai e lo presi per mano – Andiamo subito in commissariato e raccontiamo loro la verità!
Si alzò, ma rimase fermo sul posto, nonostante io lo tirassi per la manica nel tentativo di andarcene.
- Davide ti prego, io non voglio rovinarmi la vita per uno stupido incidente! – gli dissi con le lacrime agli occhi – Andiamo, ti prego!
- Dai Mary, non fare così. – mi disse abbracciandomi - Se non vuoi rovinarti la vita, non andare a dire nulla ai poliziotti. Se avessero avuto realmente dei sospetti su di noi, adesso saremmo là da loro ad essere interrogati. Ma non ci siamo, quindi non pensano che siamo stai noi.
- Ma invece l’hanno capito ieri, quando mi sono bloccata e non ho saputo come comportarmi. L’hai visto come mi ha guardata? Come se avesse esaminato la mia mente e leggendo fra i miei ricordi avesse capito che avevo ammazzato Luca.
- Se fosse realmente così ora saresti già in cella. Ma loro non hanno capito assolutamente niente, non hanno capito che siamo stati noi. E noi dobbiamo continuare a non farglielo intuire, dobbiamo recitare bene la nostra parte. Ora loro ti assilleranno di domande perché hanno capito che sei più debole. Ma tu non cederai e dimostrerai loro che sei forte e che con l’omicidio non c’entri nulla. Ok?
Annuii, incapace di frenare le lacrime. Fino a un secondo fa ero assolutamente convinta che avremmo dovuto confessare tutto ciò che avevamo fatto ed ora ero persuasa del contrario, ero certa che non avremmo mai e poi mai detto una parola. Mi sarei fatta un applauso per la mia coerenza, ma ero troppo occupata a disperarmi fra le braccia di Davide.
Fummo interrotti da una chiamata sul mio cellulare: era mia madre.
- Pronto mamma? – risposi.
- Mary, tu e Davide dovete tornare in questura. Hanno bisogno di voi.
Non risposi. Qualunque cosa avessi detto, sarebbe stata una maledizione contro me, Davide, Luca, la polizia e tutta questa dannata vita. Questa volta Davide non aveva avuto ragione nonostante la sua perfezione.

Federica Magnabosco, Matteo Zoppello, Diego Lombarda.

giovedì 4 marzo 2010

Capitolo 4

"La aprì e vi trovò all’interno una lettera con data di un anno prima, scritta a mano e con una brutta calligrafia."


Vi presentiamo il quarto capitolo del nostro racconto.

Sperando sia di vostro gradimento.

Gli scrittori_improvvisati

Capitolo 4

Il commissario rifletteva su quelle due lettere scritte dal morto prima che lasciasse questo mondo e sui due ragazzi con i quali aveva parlato il giorno prima. Il ragazzo era stato molto sicuro di sé e di ciò che aveva fatto, ma la ragazza era bloccata: dalla paura o dalla disperazione? Non riusciva a capirlo. Tuttavia il suo sesto senso gli diceva che il ragazzo aveva molte più cose da nascondere di quante non sembrasse averne la giovane. Nonostante ciò, però, avrebbe dovuto concentrarsi maggiormente sulla ragazza perché era più debole e sarebbe crollata molto facilmente. D’un tratto sentì bussare alla porta e fece capolino un giovane poliziotto. L’agente gli ricordò che dovevano andare a parlare con il dirigente della scuola che aveva frequentato il giovane morto.
Viaggiarono fino a Vicenza per entrare in una scuola vecchia e rovinata dove una vecchia bidella li accompagnò in presidenza.
- Salve signor preside, sono molto addolorato per la morte del vostro studente. – iniziò il commissario.
- Oh certo, purtroppo io non posso dire lo stesso: Luca Cecchetto era un bullo e un vandalo che mi aveva procurato più di qualche problema, non sono poi così dispiaciuto. – disse asciutto il preside.
- Sì, capisco cosa intende. – rispose allibito il poliziotto.
In quel momento gli cadde l’occhio su una delle carte che doveva firmare il dirigente: D.M. Benetti. Un altro D. M., non era possibile!
- Senta, avrei bisogno di accedere ai dati della scuola: sa magari potremmo scoprire qualcosa d’interessante. – s’inventò il commissario: voleva sapere se il preside c’entrava qualcosa e aveva bisogno che uscisse dalla stanza.
Il preside s’irrigidì e si mise a pensare: fu molto faticoso per lui riuscire a dare una risposta positiva ai due poliziotti.
- Va bene, se vuole seguirmi le posso mostrare dove sono pagelle, verifiche e tutto il resto del materiale inerente al giovane morto. – continuò il dirigente.
- No guardi, aspetto qui e lei vada a prendere pure la documentazione. – rispose irremovibile il commissario.
- Va bene, come vuole. – acconsentì riluttante il preside uscendo dalla stanza.
“Se voleva che uscissimo evidentemente deve avere qualcosa da nascondere in questa stanza, anche perché quando gli ho domandato di approfondire inizialmente si era tirato indietro.” pensava il commissario.
- Agente, guardi in quella metà della stanza: cassetti, armadio e quanto fa in tempo a rovistare. Mi raccomando però, non lasci tutto in disordine, perché non si deve capire che abbiamo guardato senza mandato. – ordinò il commissario al suo sottoposto.
- Agli ordini, signore.
Aprirono ogni anta e rovistarono in ogni cassetto guardando all’interno di ogni busta. C’erano una gran quantità di documenti riguardanti la scuola, qualche giornale di vecchia data e una rivista di moto, vecchia di un anno. Era completamente diversa rispetto a tutti altri oggetti presenti nel cassetto nel quale stava rovistando il commissario. Stava per aprirla, ma ripose tutto quanto aveva in mano quando sentì la porta aprirsi.
- Ecco a voi tutti i documenti presenti in questa scuola su Luca Cecchetto. – disse il preside appoggiando un notevole pacco di fogli che aveva tutta l’aria di essere molto pesante.
- La ringrazio. - disse il commissario iniziando il lavoro.
Rimasero a lungo tutti e tre nella stanza: il preside comodamente sdraiato sulla sua poltroncina e i due poliziotti, indaffarati a cercare informazioni. Lavoravano senza parlare, perché non volevano fare sapere al preside i sospetti che potevano avere su di lui.
Improvvisamente il dirigente fu chiamato al telefono e così i due poliziotti si trovarono a parlare indisturbati.
- Signore, da un anno i voti del ragazzo sono aumentati enormemente e, inoltre, non ha più avuto un singolo richiamo scritto.
- Sì, anche io ho notato questo fatto molto strano. – continuò pensieroso il preside. Quando gli venne in mente della rivista di motociclette nel cassetto.
c Decise di leggerla ad alta voce, per rendere partecipe anche il suo sottoposto di ciò che aveva rinvenuto.
- Gentile signor D.M., con non grande sorpresa ho scoperto della sua relazione con una studentessa di seconda, di cui però non ricordo il nome. L’ho vista ieri, mentre stavo per venire per l’ennesima volta a trovarla in presidenza, mentre vi scambiavate effusioni. Ho pensato bene di non disturbarla perché mi sembrava alquanto preso dal momento. Ma un preside come lei saprà bene che queste cose non vanno fatte e che se venisse a saperlo casualmente la polizia lei finirebbe in guai seri. Noi non vogliamo, però, che nessuno abbia seccature. Purtroppo, come lei ben sa io ho qualche problemino a scuola, ma sono certo che con il suo aiuto riuscirò a superare queste mie difficoltà e anche i due anni che mi rimangono da frequentare in questa scuola senza ulteriori bocciature. Spero lei capisca la sua situazione e la mia, in modo da poter rimediare nel migliore dei modi. Firmato: Luca Cecchetto.
Il commissario era sconvolto, questa lettera stravolgeva tutte le sue supposizioni. Questo significava che D.M. non era riferito a uno dei due ragazzi, ma che era riferito al preside che, stanco dei ricatti subiti dal giovane bullo, aveva deciso di ammazzarlo. I poliziotti erano talmente assorti nelle loro congetture che non si accorsero che proprio in quell’istante era entrato il preside.
Il direttore, alla vista della lettera che ben conosceva in mano al commissario sbiancò e, preso dal panico, si fiondò sul foglio di carta nel tentativo di strapparlo dalle mani del poliziotto.
- Avete il mandato di perquisizione che vi autorizza a rovistare fra i miei oggetti? No? E allora io vi denuncio! – sbraitò il preside, folle di paura.
- Guardi che questa lettera era appoggiata su quella credenza, - disse mentendo il commissario – quindi non serve nessun mandato.
- No, quella lettera era ben riposta dentro ad un cassetto! – continuò urlando il direttore che era sempre più spaventato.
- Vede qualche cassetto aperto? – disse il poliziotto più giovane che aveva ben pensato, mentre il commissario leggeva la lettera, di sistemare prima la rivista e poi il cassetto nello stesso modo in cui li avevano trovati.
- No, tutto è in ordine. – disse con un tono rassegnato il preside – Però non sono stato io ad uccidere il ragazzo, anche se avrei tanto voluto stringerlo tra le mie mani quel ricattatore bastardo. – riprese ad urlare.
- Questo lo decideremo in centrale e andando avanti con le indagini.
- No, ve lo posso assicurare io: sabato sera ero a cena fuori, in un ristorante e il titolare può confermare la mia presenza.
- Era da solo? – domandò il commissario.
- Veramente ero con un’altra persona. – rispose rimanendo sul vago.
- Era in compagnia della ragazza di cui si parla in questa lettera? – continuò il poliziotto, sicuro di avere la situazione in pugno.
Il preside annuì e i poliziotti lo portarono in centrale: anche nel caso che non fosse lui l’assassino di Luca Cecchetto, aveva pur sempre avuto dei rapporti con una minorenne e al commissario atti come questo facevano imbestialire quasi quanto un omicidio.


Federica Magnabosco, Matteo Zoppello, Diego Lombarda.

giovedì 25 febbraio 2010

Capitolo 3


"Sentii improvvisamente la prima lacrima che mi rigava il viso e piansi tra le braccia di mia madre."

Vi presentiamo il terzo capitolo del nostro racconto.

Aspettiamo con ansia vostri pareri e commenti.

Gli scrittori_improvvisati
Capitolo 3

Rimanemmo a chiacchierare in cortile per un po’. Discutemmo di cose futili e stupide, avevamo bisogno di distrarci.
Ad un certo punto mia madre uscì di casa urlando cose incomprensibili. Mi alzai e andai verso di lei, quando la raggiunsi era in un mare di lacrime.
- Mary è successa una cosa orribile. – mi annunciò gravemente.
- Cosa? – dovevo interpretare la mia parte meglio che potevo, non potevo sbagliare nulla.
- Luca è … è morto. La polizia ha trovato il suo corpo vicino al fiume.
Mia madre piangeva come una disperata, ancora un poco ed iniziava ad urlare a squarciagola. Riuscivo solo a pensare che dovevo recitare come non avevo mai fatto. Mi facevo schifo da sola da quanto ero insensibile. Avevamo ucciso un nostro amico, dovrò aver pure provato qualcosa! Un po’ di rimorso o anche rabbia, proprio niente? Non è possibile che fossi così senza cuore.
Sentii improvvisamente la prima lacrima che mi rigava il viso e piansi tra le braccia di mia madre. Non dicemmo nulla: io perché non volevo rovinare la mia recita e mia madre perché non sapeva come consolarmi.
Davide rimase sull’altalena durante questa scena, probabilmente eravamo troppo patetiche per i suoi gusti. O forse non sapeva come comportarsi.
Quando smisi di piangere mia madre mi disse che dovevamo andare in commissariato, a dire quello che sapevamo. Perché ormai anche la polizia sapeva che le uniche persone che frequentavano Luca eravamo io e Davide. Ci avviammo tutti e tre verso l’auto di mia mamma e partimmo verso la questura.
Quando scesi dall’auto un brivido di paura mi corse lungo tutta la schiena, ero veramente in panico. Cercai la mano di Davide, avevo bisogno del suo calore e del suo sostegno. Lui però non mi badò: appena sentì il contatto della mia mano la ritrasse e abbassò lo sguardo. Biascicò qualcosa, ma, irritata, non lo stavo a sentire.
Entrammo all’interno dello stabile: c’erano ovunque uomini in divisa pronti a sbranarmi. Chissà se sarei sopravvissuta. Camminammo lungo il corridoio principale fino a giungere all’ultima stanza, quella del commissario.
- Salve commissario, mi ha chiamato poco fa per dirmi della… - fece una lunga pausa e prese fiato – della morte di Luca. – disse mia madre.
- Sì giusto, Luca Cecchetto. Sono molto addolorato. – disse porgendo la mano a ciascuno di noi tre.
Io impietrita porsi la mia, ma non riuscii a stringerla. Non avevo più forze. Per Davide, invece, il saluto sembrò quasi una routine, ostentava un’immensa sicurezza.
Rimanemmo lì tutto il resto della mattinata. Il commissario ci fece delle domande in quella stessa stanza. Ci chiese se eravamo con Luca ieri sera, da quanto non lo vedevamo, perché non eravamo con lui, se ci fossero stati litigi fra di noi di recente oppure con altra gente. Fece poche altre domande, perché evidentemente avrebbe voluto sentirci separatamente. Rispose Davide a quasi tutte le domande, eccetto quando il poliziotto si rivolse esplicitamente a me.
- Avevate litigato di recente? – mi domandò.
Lo fissai bloccata, non riuscendo ad aprire bocca. Era una domanda così stupida ed inutile, ma non sapevo che fare. Dovevo dirgli la verità o no? Cosa dovevo fare? Entrai nel panico e continuai a fissarlo per alcuni secondi senza aprir bocca. Sentivo che gli occhi di mia madre e quelli di Davide mi scrutavano, alla ricerca di un perché del mio silenzio.
- Avete litigato di recente? – mi ripeté.
Annuii quasi impercettibilmente, una lievissima scossa del capo seguita da un sibilo affermativo.
- Sì, avevamo litigato mercoledì. – dissi. Del resto era la verità.
Mi affrettai ad aggiungere anche che, però, avevamo già sistemato tutto. “Per quanto si possa sistemare con Luca” pensai tra me e me.
Dopo avermi guardato abbastanza male, il commissario si congedò e disse che ci avrebbe chiamato più avanti per le deposizioni ufficiali. Potemmo quindi tornare a casa.
Durante il viaggio regnò il silenzio più totale. Arrivati, mia madre invitò Luca a rimanere a mangiare a pranzo, ma lui rifiutò gentilmente dicendo che doveva andare a casa perché non si sentiva tanto bene. Lo accompagnai alla moto, consapevole che mi avrebbe accusata di essere stata una stupida per essermi comportata in quel modo.
Finalmente alzò lo sguardo da terra e mi guardò negli occhi. C’era così tanta amarezza riflessa che mi sentii uno schifo totale. Non disse nulla: aveva capito che non occorrevano parole ma che era bastato il suo mesto sguardo per esprimere quello che pensava. Non mi risparmiò nulla: mi caricò sulle spalle tutta la colpa del fallimento della prima della nostra recita. Sembrava proprio che i suoi occhi dicessero “Sei una stupida” e probabilmente avrebbe fatto meno male sentirselo dire a parole.
- Che dovevo fare? – sbottai d’un tratto incollerita – È inutile che mi guardi così, mi fai solo che star peggio. È andata così.
- Hai ragione, scusa. Forse hai fatto anche bene a dire la verità, dimostri di non aver nulla da nascondere.
Ora iniziava ad arrampicarsi sugli specchi perché non aveva voglia di litigare. Era fatto così, ormai lo conoscevo. Il fatto, però, mi seccò ulteriormente.
- Senti, o sei incazzato o no. Non puoi cambiare umore così in un secondo. Vabbè, adesso sono nervosa ed è meglio se sto zitta, sennò poi dico cose di cui mi pento.
- Va bene. Ci vediamo dopo, se ci sono problemi ti chiamo. Ciao.
Entrai in casa e lo guardai andare via attraverso il vetro della finestra. Poi mi fiondai in camera e ci rimasi tutto il pomeriggio: non arrivò nessuna chiamata e tantomeno nessuna visita.



Federica Magnabosco, Matteo Zoppello, Diego Lombarda.

giovedì 18 febbraio 2010

Capitolo 2

"Ci sedemmo sulle seggiole della vecchia altalena che avevo in giardino. Era un miracolo che fosse ancora in piedi."


Ecco pubblicato il secondo capitolo del nostro terzo racconto.


Buona lettura


Gli scrittori_improvvisati

Capitolo 2

Io e Davide ci alzammo poco dopo prima delle sette nonostante fosse domenica. Eravamo distrutti, in tutti i sensi che questa parola può avere. Rubò una ventina di euro dal portafoglio dei suoi e andammo nel garage.
- Ti va se andiamo in centro? - mi domandò – Almeno andiamo in un bar decente a fare colazione.
- No, non ho tanta voglia.
- Che facciamo? – mi domandò.
- Vabbè, accompagnami a casa mia. – gli risposi.
- Okay, andiamo.
Mi consegnò il suo casco e inforcò la motocicletta. Era una gran bella moto, una 125 perché a diciassette anni potevi guidare anche quelle. Era blu e argentata e la sentivi ad un chilometro di distanza: siccome Davide aveva modificato la marmitta faceva un frastuono assordante. Non senza qualche difficoltà salii in moto e andammo prima a casa mia.
Ci sedemmo sulle seggiole della vecchia altalena che avevo in giardino. Era un miracolo che fosse ancora in piedi.
- Dici che hanno già trovato il corpo? – sussurrai a Davide.
- No, eravamo abbastanza imboscati. Per conto mio prima di questo pomeriggio non se ne accorgerà nessuno, nemmeno sua madre. – mi rispose pensieroso.
Aveva le ciglia aggrottate, perso in un pensiero profondo che sembrava turbarlo non poco.
- Il problema vero, - continuò – sarà inventarci una storia che regga da raccontare alla gente e alla polizia.
- Potremmo dire che eravamo andati a farci un giro a Brendola e che quella sera Luca non era con noi. Non abbiamo incontrato nessuno ieri sera che potrebbe contraddirci.
Lui rimase assorto nei suoi pensieri.
- È l’unica cosa che possiamo inventarci del resto. – disse – L’importante è non contraddirsi, sennò capiscono che nascondiamo qualcosa. Inventiamoci una storia che deve rimanere immutata anche se qualcosa non va. Ok?
- Sì sì, certo. Potremmo dire che siamo rimasti tutta la sera alla panchina, del resto non sarebbe nemmeno una bugia.
- E se c’è andato qualcuno prima di noi? Non possiamo raccontare una balla se non siamo sicuri di poterla confermare.
Aveva ragione. Possibile che fosse sempre dalla parte del giusto? Possibile che non sbagliasse mai nulla nella sua vita? Quanto era perfetto.
- Magari diciamo che avevamo deciso di trovarci al parco però Luca non arrivava così, dopo averlo aspettato un sacco di tempo, ce ne siamo andati. Quando poi lui è arrivato noi non c’eravamo. E noi non sappiamo niente di quello che è successo. – propose.
Era una trovata fantastica: finché eravamo stati al parco ancora tutti e tre vivi, non era passato nessuno.
- Beh, una storia meglio di questa non la troviamo di certo. Ora dobbiamo pensare bene agli orari. Che ore erano quando Luca aveva sbattuto la testa? – domandai.
- Erano da poco passate le ventitré, mi sembra di ricordare.
- Possiamo dire, allora, di essere arrivati alle nove al parco e di aver aspettato Luca fino alle dieci e mezzo. Dopodiché ci siamo rotti e siamo andati via.
Mi stavo auto convincendo che le cose erano andate veramente così, riuscivo quasi a sentire il nervoso che mi aveva fatto venir Luca non presentandosi ieri sera. Quello là faceva sempre quello che pareva a lui, disinteressandosi degli altri. E siccome era talmente stupido da non riuscire ad usare un maledettissimo cellulare era anche impossibile rintracciarlo.
Sì, erano andate così le cose, ne ero assolutamente convinta.
- Se ci chiedono cosa abbiamo fatto mentre lo aspettavamo, cosa gli rispondiamo? – mi domandò Davide. Stavamo pensando ad ogni singolo particolare.
- Diciamo che abbiamo parlato.
- E di che cosa? Non dobbiamo tralasciare niente Mary. – mi fissava negli occhi mentre mi parlava. Capii che la storia non lo convinceva tanto quando persuadeva me. Pensava che fossi troppo ingenua, glielo leggevo sul volto. Credeva che fossi troppo stupida per riuscire a tenere il gioco.
- Potremmo dire che eravamo un po’ brilli e che quindi facevamo gli idioti. – gli dissi – Almeno abbiamo una scusa da usare se non ricordiamo tutti i particolari.
Era una buona idea tutto sommato, certo non all’altezza delle sue, ma convincente.
- Sì, ci può stare. Comunque ci converrebbe lo stesso trovare un argomento. Metti caso che ci portino in centrale di polizia, ci chiederebbero di sicuro qualcosa di questo genere.
- Diciamo che abbiamo parlato dei nostri ricordi di’infanzia, o comunque una cosa così. Tanto ci conosciamo da un sacco di anni e le abbiamo passate tutte insieme. Non sarà difficile trovare qualche aneddoto da raccontare. E se ci domandano perché parlavamo di sciocchezze del genere, possiamo rispondergli che eravamo un po’ andati e che ci stavamo divertendo anche così.
- Fatta, così è perfetta. – rispose. Ora stava iniziando a convincersi anche lui della nostra storia.
Se c’era una cosa che ero brava a fare quella era inventare balle. Ero imbattibile perché quando le raccontavo ne ero convinta fino all’osso: riuscivo a convincere anche me stessa di quello che stavo dicendo. Non ero mai riuscita a capire, però, se questo accadeva perché ero brava a raccontarle o perché ero talmente stupida da imbrogliarmi da sola. Ma di certo, era più bello pensare che si trattasse della prima cosa.


Federica Magnabosco, Matteo Zoppello, Diego Lombarda.

giovedì 4 febbraio 2010

Capitolo uno di un racconto giallo suppergiù

"Mi prese per mano, non riuscii a capire se lo fece per fare forza a sé stesso o per fare forza a me. Ci avviamo così soli verso il fiume"


Ecco pubblicato il primo capitolo del nostro terzo racconto.


Un racconto diverso dagli altri che speriamo possiate apprezzare comunque.


Buona lettura

Gli scrittori_improvvisati


Capitolo 1

Il sangue sgorgava da quella sua lurida testa. Io e Davide guardavamo il corpo esanime di Luca steso a terra: l’avevamo ucciso. Eravamo stati noi due, insieme, anche se a spingerlo era stato solo uno eravamo entrambi colpevoli. Ma come si fa ad essere così idioti da scivolare sul ghiaccio e sbattere la testa contro il muro?
Non sapevo che fare, avevo paura. Mi voltai verso Davide, in cerca di un suo sguardo che potesse darmi forza. Era sempre sicuro di sé, protetto dai suoi muscoli e dal timore che incutevano nelle persone. Ma questa volta i suoi occhi brillavano alla luce fioca dell’unico lampione presente in strada.
- Che facciamo? – volevo rompere quel silenzio straziante, non ce la facevo più. Nonostante tutto, però, non sentivo il bisogno di piangere. Luca era uno stronzo e di certo non sarebbe mancato a nessuno. Se l’era cercata la sua morte.
- Andiamo Mary. – mi rispose Davide in un soffio. Aveva la voce rotta: per la prima volta in vita sua aveva paura.
Mi prese per mano, non riuscii a capire se lo fece per fare forza a sé stesso o per fare forza a me. Ci allontanammo quindi dal parco e ci avviamo così, soli verso il fiume.
Davide mi era sempre piaciuto ed io ero sempre piaciuta a lui. Non ce lo eravamo mai detto, ma dentro di noi lo sapevamo. Era tutta colpa di Luca se non c’era mai stato niente fra di noi: con la sua gelosia e le sue protezioni non mi lasciava avvicinare da nessuno finché eravamo insieme, nemmeno dal suo migliore amico Davide. Tutto sommato ero contenta che fosse morto.
Arrivammo ad una panchina e ci sedemmo. Mi accesi una sigaretta e ne offrii una a Davide, anche se sapevo che non fumava.
- Sì, grazie – mi rispose.
Mi spiazzò, capii che nemmeno lui era perfetto: il suo viso d’angelo, il fisico marmoreo e la sua bontà erano impareggiabili. Nemmeno lui era senza difetti. Gli diedi una sigaretta e gliel’accesi consapevole che era colpa mia se non era perfetto.
Fumammo in silenzio, con la nuca spappolata di Luca ben impressa nella mente. Quella nuca che era stata per tanto tempo mia, che avevo coccolato e che avevo amato, nonostante fosse totalmente vuota all’interno. Iniziai a piangere.
Fu un pianto singhiozzante e pieno di paura. Non fu un bel vedere, fu sguaiato e umiliante. Appoggiai il mio viso sulla spalla di Davide e mi abbracciò. Io piansi per un sacco di tempo, avvinghiata a lui. Doveva salvarmi, senza la mia ancora sarei affogata. Prese il mio viso fra le sue mani e mi baciò. Fu un bacio semplice e, seppur privo di passione, pieno di affetto.
- Insieme ce la faremo. – mi disse – Fidati di me.
Mi fidavo di lui più che di chiunque altro. Lo baciai di nuovo, in segno della mia fiducia.
Era notte fonda, non c’era nessuno in giro. In un paesino stupido e pieno di vecchiacci come Meledo all’una non girava nessuno. Odiavo il paese in cui vivevo, non c’era un cane: solo sfigati che pensano ad arare i campi. Gli unici amici che avevo erano Luca e Davide ed ora uno era morto. Rimanemmo abbracciati sulla panchina fino a che non mi calmai e poi andammo a dormire a casa sua. I miei erano ad una qualche cena da amici e sarebbero tornati a casa talmente ubriachi da non rendersi conto se ero presente in casa o no.
Ci stendemmo sul suo letto, con i vestiti ancora addosso: avevamo bisogno l’uno dell’altra dopo la terribile nottata che avevamo passato. Io continuai a piangere sulla sua spalla, in silenzio però, per non svegliare i suoi.
In realtà non sapevo bene perché piangevo, non mi mancava Luca e non mi interessava nulla di lui. Non piangevo nemmeno per il senso di colpa: mi sentivo la coscienza pulita era solo colpa sua se era morto. Piangevo solo per poter rimanere ancora rannicchiata fra le forti braccia di Davide. Nessuno dei due riuscì a dormire.

Intanto, steso sopra una lastra di ghiaccio giaceva Luca: nessuno immaginava che fosse ancora vivo.
Faceva fatica a respirare e aveva la vista totalmente annebbiata, non capiva nulla. Sentiva dentro di sé che non gli restava tanto da offrire a questa vita, che la morte voleva venirlo a prendere al più presto.
- Che figli di puttana. – riusciva solo a pensare – Ma gliela faccio pagare prima di andarmene da questo fottutissimo mondo.
Non aveva idea di che ora fosse, ma era sicuramente rimasto privo di sensi per gran parte della notte. Tentò di voltarsi e vide l’enorme chiazza di sangue che lo circondava. Sarebbe di certo morto: se non di freddo allora per dissanguamento. Nonostante la confusione che regnava nella sua testa, notò un cumulo di neve alla sua destra che ancora non era ghiacciato.
Iniziò a scrivere le iniziali del suo assassino: D.M. Proprio appena aveva finito di scrivere la M ecco che la morte lo venne a prendere. Luca non faceva più parte di questo mondo.
Per sua sfortuna, nei suoi ultimi momenti non aveva pensato che le persone presenti al suo assassino erano due: Maria Dall’Igna e Davide Marin. Due D.M. presenti, ma un solo assassino.


Federica Magnabosco, Matteo Zoppello, Diego Lombarda.

mercoledì 3 febbraio 2010

Racconto completo "La mia verità"


Capitolo 1

Il sangue sgorgava da quella sua lurida testa. Io e Davide guardavamo il corpo esanime di Luca steso a terra: l’avevamo ucciso. Eravamo stati noi due, insieme, anche se a spingerlo era stato solo uno eravamo entrambi colpevoli. Ma come si fa ad essere così idioti da scivolare sul ghiaccio e sbattere la testa contro il muro?
Non sapevo che fare, avevo paura. Mi voltai verso Davide, in cerca di un suo sguardo che potesse darmi forza. Era sempre sicuro di sé, protetto dai suoi muscoli e dal timore che incutevano nelle persone. Ma questa volta i suoi occhi brillavano alla luce fioca dell’unico lampione presente in strada.
- Che facciamo? – volevo rompere quel silenzio straziante, non ce la facevo più.
Nonostante tutto, però, non sentivo il bisogno di piangere. Luca era uno stronzo e di certo non sarebbe mancato a nessuno. Se l’era cercata la sua morte.
- Andiamo Mary. – mi rispose Davide in un soffio. Aveva la voce rotta: per la prima volta in vita sua aveva paura.
Mi prese per mano, non riuscii a capire se lo fece per fare forza a sé stesso o per fare forza a me. Ci allontanammo quindi dal parco e ci avviamo così, soli verso il fiume.
Davide mi era sempre piaciuto ed io ero sempre piaciuta a lui. Non ce lo eravamo mai detto, ma dentro di noi lo sapevamo. Era tutta colpa di Luca se non c’era mai stato niente fra di noi: con la sua gelosia e le sue protezioni non mi lasciava avvicinare da nessuno finché eravamo insieme, nemmeno dal suo migliore amico Davide. Tutto sommato ero contenta che fosse morto.
Arrivammo ad una panchina e ci sedemmo. Mi accesi una sigaretta e ne offrii una a Davide, anche se sapevo che non fumava.
- Sì, grazie – mi rispose.
Mi spiazzò, capii che nemmeno lui era perfetto: il suo viso d’angelo, il fisico marmoreo e la sua bontà erano impareggiabili. Nemmeno lui era senza difetti. Gli diedi una sigaretta e gliel’accesi consapevole che era colpa mia se non era perfetto.
Fumammo in silenzio, con la nuca spappolata di Luca ben impressa nella mente. Quella nuca che era stata per tanto tempo mia, che avevo coccolato e che avevo amato, nonostante fosse totalmente vuota all’interno. Iniziai a piangere.
Fu un pianto singhiozzante e pieno di paura. Non fu un bel vedere, fu sguaiato e umiliante. Appoggiai il mio viso sulla spalla di Davide e mi abbracciò. Io piansi per un sacco di tempo, avvinghiata a lui. Doveva salvarmi, senza la mia ancora sarei affogata. Prese il mio viso fra le sue mani e mi baciò. Fu un bacio semplice e, seppur privo di passione, pieno di affetto.
- Insieme ce la faremo. – mi disse – Fidati di me.
Mi fidavo di lui più che di chiunque altro. Lo baciai di nuovo, in segno della mia fiducia.
Era notte fonda, non c’era nessuno in giro. In un paesino stupido e pieno di vecchiacci come Meledo all’una non girava nessuno. Odiavo il paese in cui vivevo, non c’era un cane: solo sfigati che pensano ad arare i campi. Gli unici amici che avevo erano Luca e Davide ed ora uno era morto. Rimanemmo abbracciati sulla panchina fino a che non mi calmai e poi andammo a dormire a casa sua. I miei erano ad una qualche cena da amici e sarebbero tornati a casa talmente ubriachi da non rendersi conto se ero presente in casa o no.
Ci stendemmo sul suo letto, con i vestiti ancora addosso: avevamo bisogno l’uno dell’altra dopo la terribile nottata che avevamo passato. Io continuai a piangere sulla sua spalla, in silenzio però, per non svegliare i suoi.
In realtà non sapevo bene perché piangevo, non mi mancava Luca e non mi interessava nulla di lui. Non piangevo nemmeno per il senso di colpa: mi sentivo la
coscienza pulita era solo colpa sua se era morto. Piangevo solo per poter rimanere ancora rannicchiata fra le forti braccia di Davide. Nessuno dei due riuscì a dormire.

Intanto, steso sopra una lastra di ghiaccio giaceva Luca: nessuno immaginava che fosse ancora vivo.
Faceva fatica a respirare e aveva la vista totalmente annebbiata, non capiva nulla. Sentiva dentro di sé che non gli restava tanto da offrire a questa vita, che la morte voleva venirlo a prendere al più presto.
- Che figli di puttana. – riusciva solo a pensare – Ma gliela faccio pagare prima di andarmene da questo fottutissimo mondo.
Non aveva idea di che ora fosse, ma era sicuramente rimasto privo di sensi per gran parte della notte. Tentò di voltarsi e vide l’enorme chiazza di sangue che lo circondava. Sarebbe di certo morto: se non di freddo allora per dissanguamento. Nonostante la confusione che regnava nella sua testa, notò un cumulo di neve alla sua destra che ancora non era ghiacciato.
Iniziò a scrivere le iniziali del suo assassino: D.M. Proprio appena aveva finito di scrivere la M ecco che la morte lo venne a prendere. Luca non faceva più parte di questo mondo.
Per sua sfortuna, nei suoi ultimi momenti non aveva pensato che le persone presenti al suo assassino erano due: Maria Dall’Igna e Davide Marin. Due D.M. presenti, ma un solo assassino.


Capitolo 2

Io e Davide ci alzammo poco dopo prima delle sette nonostante fosse domenica. Eravamo distrutti, in tutti i sensi che questa parola può avere. Rubò una ventina di euro dal portafoglio dei suoi e andammo nel garage.
- Ti va se andiamo in centro? - mi domandò – Almeno andiamo in un bar decente a fare colazione.
- No, non ho tanta voglia.
- Che facciamo? – mi domandò.
- Vabbè, accompagnami a casa mia. – gli risposi.
- Okay, andiamo.
Mi consegnò il suo casco e inforcò la motocicletta. Era una gran bella moto, una 125 perché a diciassette anni potevi guidare anche quelle. Era blu e argentata e la sentivi ad un chilometro di distanza: siccome Davide aveva modificato la marmitta faceva un frastuono assordante. Non senza qualche difficoltà salii in moto e andammo prima a casa mia.
Ci sedemmo sulle seggiole della vecchia altalena che avevo in giardino. Era un miracolo che fosse ancora in piedi.
- Dici che hanno già trovato il corpo? – sussurrai a Davide.
- No, eravamo abbastanza imboscati. Per conto mio prima di questo pomeriggio non se ne accorgerà nessuno, nemmeno sua madre. – mi rispose pensieroso.
Aveva le ciglia aggrottate, perso in un pensiero profondo che sembrava turbarlo non poco.
- Il problema vero, - continuò – sarà inventarci una storia che regga da raccontare alla gente e alla polizia.
- Potremmo dire che eravamo andati a farci un giro a Brendola e che quella sera Luca non era con noi. Non abbiamo incontrato nessuno ieri sera che potrebbe contraddirci.
Lui rimase assorto nei suoi pensieri.
- È l’unica cosa che possiamo inventarci del resto. – disse – L’importante è non contraddirsi, sennò capiscono che nascondiamo qualcosa. Inventiamoci una storia che deve rimanere immutata anche se qualcosa non va. Ok?
- Sì sì, certo. Potremmo dire che siamo rimasti tutta la sera alla panchina, del resto non sarebbe nemmeno una bugia.
- E se c’è andato qualcuno prima di noi? Non possiamo raccontare una balla se non siamo sicuri di poterla confermare.
Aveva ragione. Possibile che fosse sempre dalla parte del giusto? Possibile che non sbagliasse mai nulla nella sua vita? Quanto era perfetto.
- Magari diciamo che avevamo deciso di trovarci al parco però Luca non arrivava così, dopo averlo aspettato un sacco di tempo, ce ne siamo andati. Quando poi lui è arrivato noi non c’eravamo. E noi non sappiamo niente di quello che è successo. – propose.
Era una trovata fantastica: finché eravamo stati al parco ancora tutti e tre vivi, non era passato nessuno.
- Beh, una storia meglio di questa non la troviamo di certo. Ora dobbiamo pensare bene agli orari. Che ore erano quando Luca aveva sbattuto la testa? – domandai.
- Erano da poco passate le ventitré, mi sembra di ricordare.
- Possiamo dire, allora, di essere arrivati alle nove al parco e di aver aspettato Luca fino alle dieci e mezzo. Dopodiché ci siamo rotti e siamo andati via.
Mi stavo auto convincendo che le cose erano andate veramente così, riuscivo quasi a sentire il nervoso che mi aveva fatto venir Luca non presentandosi ieri sera. Quello là faceva sempre quello che pareva a lui, disinteressandosi degli altri. E siccome era talmente stupido da non riuscire ad usare un maledettissimo cellulare era anche impossibile rintracciarlo.
Sì, erano andate così le cose, ne ero assolutamente convinta.
- Se ci chiedono cosa abbiamo fatto mentre lo aspettavamo, cosa gli rispondiamo? – mi domandò Davide. Stavamo pensando ad ogni singolo particolare.
- Diciamo che abbiamo parlato.
- E di che cosa? Non dobbiamo tralasciare niente Mary. – mi fissava negli occhi mentre mi parlava. Capii che la storia non lo convinceva tanto quando persuadeva me. Pensava che fossi troppo ingenua, glielo leggevo sul volto. Credeva che fossi troppo stupida per riuscire a tenere il gioco.
- Potremmo dire che eravamo un po’ brilli e che quindi facevamo gli idioti. – gli dissi – Almeno abbiamo una scusa da usare se non ricordiamo tutti i particolari.
Era una buona idea tutto sommato, certo non all’altezza delle sue, ma convincente.
- Sì, ci può stare. Comunque ci converrebbe lo stesso trovare un argomento. Metti caso che ci portino in centrale di polizia, ci chiederebbero di sicuro qualcosa di questo genere.
- Diciamo che abbiamo parlato dei nostri ricordi di’infanzia, o comunque una cosa così. Tanto ci conosciamo da un sacco di anni e le abbiamo passate tutte insieme. Non sarà difficile trovare qualche aneddoto da raccontare. E se ci domandano perché parlavamo di sciocchezze del genere, possiamo rispondergli che eravamo un po’ andati e che ci stavamo divertendo anche così.
- Fatta, così è perfetta. – rispose. Ora stava iniziando a convincersi anche lui della nostra storia.
Se c’era una cosa che ero brava a fare quella era inventare balle. Ero imbattibile perché quando le raccontavo ne ero convinta fino all’osso: riuscivo a convincere anche me stessa di quello che stavo dicendo. Non ero mai riuscita a capire, però, se questo accadeva perché ero brava a raccontarle o perché ero talmente stupida da imbrogliarmi da sola. Ma di certo, era più bello pensare che si trattasse della prima cosa.


Capitolo 3

Rimanemmo a chiacchierare in cortile per un po’. Discutemmo di cose futili e stupide, avevamo bisogno di distrarci.
Ad un certo punto mia madre uscì di casa urlando cose incomprensibili. Mi alzai e andai verso di lei, quando la raggiunsi era in un mare di lacrime.
- Mary è successa una cosa orribile. – mi annunciò gravemente.
- Cosa? – dovevo interpretare la mia parte meglio che potevo, non potevo sbagliare nulla.
- Luca è … è morto. La polizia ha trovato il suo corpo vicino al fiume.
Mia madre piangeva come una disperata, ancora un poco ed iniziava ad urlare a squarciagola. Riuscivo solo a pensare che dovevo recitare come non avevo mai fatto. Mi facevo schifo da sola da quanto ero insensibile. Avevamo ucciso un nostro amico, dovrò aver pure provato qualcosa! Un po’ di rimorso o anche rabbia, proprio niente? Non è possibile che fossi così senza cuore.
Sentii improvvisamente la prima lacrima che mi rigava il viso e piansi tra le braccia di mia madre. Non dicemmo nulla: io perché non volevo rovinare la mia recita e mia madre perché non sapeva come consolarmi.
Davide rimase sull’altalena durante questa scena, probabilmente eravamo troppo patetiche per i suoi gusti. O forse non sapeva come comportarsi.
Quando smisi di piangere mia madre mi disse che dovevamo andare in commissariato, a dire quello che sapevamo. Perché ormai anche la polizia sapeva che le uniche persone che frequentavano Luca eravamo io e Davide. Ci avviammo tutti e tre verso l’auto di mia mamma e partimmo verso la questura.
Quando scesi dall’auto un brivido di paura mi corse lungo tutta la schiena, ero veramente in panico. Cercai la mano di Davide, avevo bisogno del suo calore e del suo sostegno. Lui però non mi badò: appena sentì il contatto della mia mano la ritrasse e abbassò lo sguardo. Biascicò qualcosa, ma, irritata, non lo stavo a sentire.
Entrammo all’interno dello stabile: c’erano ovunque uomini in divisa pronti a sbranarmi. Chissà se sarei sopravvissuta. Camminammo lungo il corridoio principale fino a giungere all’ultima stanza, quella del commissario.
- Salve commissario, mi ha chiamato poco fa per dirmi della… - fece una lunga pausa e prese fiato – della morte di Luca. – disse mia madre.
- Sì giusto, Luca Cecchetto. Sono molto addolorato. – disse porgendo la mano a ciascuno di noi tre.
Io impietrita porsi la mia, ma non riuscii a stringerla. Non avevo più forze. Per Davide, invece, il saluto sembrò quasi una routine, ostentava un’immensa sicurezza.
Rimanemmo lì tutto il resto della mattinata. Il commissario ci fece delle domande in quella stessa stanza. Ci chiese se eravamo con Luca ieri sera, da quanto non lo vedevamo, perché non eravamo con lui, se ci fossero stati litigi fra di noi di recente oppure con altra gente. Fece poche altre domande, perché evidentemente avrebbe voluto sentirci separatamente. Rispose Davide a quasi tutte le domande, eccetto quando il poliziotto si rivolse esplicitamente a me.
- Avevate litigato di recente? – mi domandò.
Lo fissai bloccata, non riuscendo ad aprire bocca. Era una domanda così stupida ed inutile, ma non sapevo che fare. Dovevo dirgli la verità o no? Cosa dovevo fare? Entrai nel panico e continuai a fissarlo per alcuni secondi senza aprir bocca. Sentivo che gli occhi di mia madre e quelli di Davide mi scrutavano, alla ricerca di un perché del mio silenzio.
- Avete litigato di recente? – mi ripeté.
Annuii quasi impercettibilmente, una lievissima scossa del capo seguita da un sibilo affermativo.
- Sì, avevamo litigato mercoledì. – dissi. Del resto era la verità.
Mi affrettai ad aggiungere anche che, però, avevamo già sistemato tutto. “Per quanto si possa sistemare con Luca” pensai tra me e me.
Dopo avermi guardato abbastanza male, il commissario si congedò e disse che ci avrebbe chiamato più avanti per le deposizioni ufficiali. Potemmo quindi tornare a casa.
Durante il viaggio regnò il silenzio più totale. Arrivati, mia madre invitò Luca a rimanere a mangiare a pranzo, ma lui rifiutò gentilmente dicendo che doveva andare a casa perché non si sentiva tanto bene. Lo accompagnai alla moto, consapevole che mi avrebbe accusata di essere stata una stupida per essermi comportata in quel modo.
Finalmente alzò lo sguardo da terra e mi guardò negli occhi. C’era così tanta amarezza riflessa che mi sentii uno schifo totale. Non disse nulla: aveva capito che non occorrevano parole ma che era bastato il suo mesto sguardo per esprimere quello che pensava. Non mi risparmiò nulla: mi caricò sulle spalle tutta la colpa del fallimento della prima della nostra recita. Sembrava proprio che i suoi occhi dicessero “Sei una stupida” e probabilmente avrebbe fatto meno male sentirselo dire a parole.
- Che dovevo fare? – sbottai d’un tratto incollerita – È inutile che mi guardi così, mi fai solo che star peggio. È andata così.
- Hai ragione, scusa. Forse hai fatto anche bene a dire la verità, dimostri di non aver nulla da nascondere.
Ora iniziava ad arrampicarsi sugli specchi perché non aveva voglia di litigare. Era fatto così, ormai lo conoscevo. Il fatto, però, mi seccò ulteriormente.
- Senti, o sei incazzato o no. Non puoi cambiare umore così in un secondo. Vabbè, adesso sono nervosa ed è meglio se sto zitta, sennò poi dico cose di cui mi pento.
- Va bene. Ci vediamo dopo, se ci sono problemi ti chiamo. Ciao.
Entrai in casa e lo guardai andare via attraverso il vetro della finestra. Poi mi fiondai in camera e ci rimasi tutto il pomeriggio: non arrivò nessuna chiamata e tantomeno nessuna visita.


Capitolo 4

Il commissario rifletteva su quelle due lettere scritte dal morto prima che lasciasse questo mondo e sui due ragazzi con i quali aveva parlato il giorno prima. Il ragazzo era stato molto sicuro di sé e di ciò che aveva fatto, ma la ragazza era bloccata: dalla paura o dalla disperazione? Non riusciva a capirlo. Tuttavia il suo sesto senso gli diceva che il ragazzo aveva molte più cose da nascondere di quante non sembrasse averne la giovane. Nonostante ciò, però, avrebbe dovuto concentrarsi maggiormente sulla ragazza perché era più debole e sarebbe crollata molto facilmente. D’un tratto sentì bussare alla porta e fece capolino un giovane poliziotto. L’agente gli ricordò che dovevano andare a parlare con il dirigente della scuola che aveva frequentato il giovane morto.
Viaggiarono fino a Vicenza per entrare in una scuola vecchia e rovinata dove una vecchia bidella li accompagnò in presidenza.
- Salve signor preside, sono molto addolorato per la morte del vostro studente. – iniziò il commissario.
- Oh certo, purtroppo io non posso dire lo stesso: Luca Cecchetto era un bullo e un vandalo che mi aveva procurato più di qualche problema, non sono poi così dispiaciuto. – disse asciutto il preside.
- Sì, capisco cosa intende. – rispose allibito il poliziotto.
In quel momento gli cadde l’occhio su una delle carte che doveva firmare il dirigente: D.M. Benetti. Un altro D. M., non era possibile!
- Senta, avrei bisogno di accedere ai dati della scuola: sa magari potremmo scoprire qualcosa d’interessante. – s’inventò il commissario: voleva sapere se il preside c’entrava qualcosa e aveva bisogno che uscisse dalla stanza.
Il preside s’irrigidì e si mise a pensare: fu molto faticoso per lui riuscire a dare una risposta positiva ai due poliziotti.
- Va bene, se vuole seguirmi le posso mostrare dove sono pagelle, verifiche e tutto il resto del materiale inerente al giovane morto. – continuò il dirigente.
- No guardi, aspetto qui e lei vada a prendere pure la documentazione. – rispose irremovibile il commissario.
- Va bene, come vuole. – acconsentì riluttante il preside uscendo dalla stanza.
“Se voleva che uscissimo evidentemente deve avere qualcosa da nascondere in questa stanza, anche perché quando gli ho domandato di approfondire inizialmente si era tirato indietro.” pensava il commissario.
- Agente, guardi in quella metà della stanza: cassetti, armadio e quanto fa in tempo a rovistare. Mi raccomando però, non lasci tutto in disordine, perché non si deve capire che abbiamo guardato senza mandato. – ordinò il commissario al suo sottoposto.
- Agli ordini, signore.
Aprirono ogni anta e rovistarono in ogni cassetto guardando all’interno di ogni busta. C’erano una gran quantità di documenti riguardanti la scuola, qualche giornale di vecchia data e una rivista di moto, vecchia di un anno. Era completamente diversa rispetto a tutti altri oggetti presenti nel cassetto nel quale stava rovistando il commissario. Stava per aprirla, ma ripose tutto quanto aveva in mano quando sentì la porta aprirsi.
- Ecco a voi tutti i documenti presenti in questa scuola su Luca Cecchetto. – disse il preside appoggiando un notevole pacco di fogli che aveva tutta l’aria di essere molto pesante.
- La ringrazio. - disse il commissario iniziando il lavoro.
Rimasero a lungo tutti e tre nella stanza: il preside comodamente sdraiato sulla sua poltroncina e i due poliziotti, indaffarati a cercare informazioni. Lavoravano senza parlare, perché non volevano fare sapere al preside i sospetti che potevano avere su di lui.
Improvvisamente il dirigente fu chiamato al telefono e così i due poliziotti si trovarono a parlare indisturbati.
- Signore, da un anno i voti del ragazzo sono aumentati enormemente e, inoltre, non ha più avuto un singolo richiamo scritto.
- Sì, anche io ho notato questo fatto molto strano. – continuò pensieroso il preside. Quando gli venne in mente della rivista di motociclette nel cassetto.
c Decise di leggerla ad alta voce, per rendere partecipe anche il suo sottoposto di ciò che aveva rinvenuto.
- Gentile signor D.M., con non grande sorpresa ho scoperto della sua relazione con una studentessa di seconda, di cui però non ricordo il nome. L’ho vista ieri, mentre stavo per venire per l’ennesima volta a trovarla in presidenza, mentre vi scambiavate effusioni. Ho pensato bene di non disturbarla perché mi sembrava alquanto preso dal momento. Ma un preside come lei saprà bene che queste cose non vanno fatte e che se venisse a saperlo casualmente la polizia lei finirebbe in guai seri. Noi non vogliamo, però, che nessuno abbia seccature. Purtroppo, come lei ben sa io ho qualche problemino a scuola, ma sono certo che con il suo aiuto riuscirò a superare queste mie difficoltà e anche i due anni che mi rimangono da frequentare in questa scuola senza ulteriori bocciature. Spero lei capisca la sua situazione e la mia, in modo da poter rimediare nel migliore dei modi. Firmato: Luca Cecchetto.
Il commissario era sconvolto, questa lettera stravolgeva tutte le sue supposizioni. Questo significava che D.M. non era riferito a uno dei due ragazzi, ma che era riferito al preside che, stanco dei ricatti subiti dal giovane bullo, aveva deciso di ammazzarlo. I poliziotti erano talmente assorti nelle loro congetture che non si accorsero che proprio in quell’istante era entrato il preside.
Il direttore, alla vista della lettera che ben conosceva in mano al commissario sbiancò e, preso dal panico, si fiondò sul foglio di carta nel tentativo di strapparlo dalle mani del poliziotto.
- Avete il mandato di perquisizione che vi autorizza a rovistare fra i miei oggetti? No? E allora io vi denuncio! – sbraitò il preside, folle di paura.
- Guardi che questa lettera era appoggiata su quella credenza, - disse mentendo il commissario – quindi non serve nessun mandato.
- No, quella lettera era ben riposta dentro ad un cassetto! – continuò urlando il direttore che era sempre più spaventato.
- Vede qualche cassetto aperto? – disse il poliziotto più giovane che aveva ben pensato, mentre il commissario leggeva la lettera, di sistemare prima la rivista e poi il cassetto nello stesso modo in cui li avevano trovati.
- No, tutto è in ordine. – disse con un tono rassegnato il preside – Però non sono stato io ad uccidere il ragazzo, anche se avrei tanto voluto stringerlo tra le mie mani quel ricattatore bastardo. – riprese ad urlare.
- Questo lo decideremo in centrale e andando avanti con le indagini.
- No, ve lo posso assicurare io: sabato sera ero a cena fuori, in un ristorante e il titolare può confermare la mia presenza.
- Era da solo? – domandò il commissario.
- Veramente ero con un’altra persona. – rispose rimanendo sul vago.
- Era in compagnia della ragazza di cui si parla in questa lettera? – continuò il poliziotto, sicuro di avere la situazione in pugno.
Il preside annuì e i poliziotti lo portarono in centrale: anche nel caso che non fosse lui l’assassino di Luca Cecchetto, aveva pur sempre avuto dei rapporti con una minorenne e al commissario atti come questo facevano imbestialire quasi quanto un omicidio.


Capitolo 5

Il commissario fissava assorto il paesaggio fuori dalla finestra. Cresceva dentro di lui il presentimento che fosse stato il preside pedofilo ad uccidere il ragazzo. Nella lettera ricattatoria che Luca gli aveva scritto, oltretutto, lo chiamava D.M., proprio come aveva scarabocchiato sulla neve. Era certo che fosse stato il preside ad ammazzarlo: se lo immaginava che gli sbatteva la testa contro il muro. L’unico problema è che se una persona ha intenzione di ucciderne un’altra, non lo fa tirando testate contro un muro, pensava il poliziotto. Questo fatto non lo convinceva nemmeno un po’ e gli dava molto da pensare.
Dopo aver bussato, entrò nella stanza l’agente con cui il giorno prima aveva scoperto la tresca del direttore.
- Signore, la ragazza ha confermato l’alibi del preside. – comunicò tutto d’un fiato il giovane.
- È facile che stia mentendo, non dobbiamo darle troppo credito. – rispose il commissario, dentro di sé profondamente convinto che il colpevole fosse il preside.
- Ma signore, anche il proprietario del ristorante, un caro amico del direttore, conferma la loro storia. – continuò il poliziotto.
- Potrebbe essere anche lui un bugiardo che vuole coprire il suo caro amico pedofilo. – il commissario non voleva credere che fosse stato qualcun altro all’infuori del preside.
- Non possiamo condannarlo per pedofilia. Signore, la ragazza si è dichiarata innamorata del preside e dice di non aver subito alcuna violenza o comunque di non essere mai stata trattata male. Tutto ciò che ha fatto, l’ha fatto di sua spontanea volontà.
- Dannazione, saremo costretti a rilasciarlo.
- Temo di sì signore.
Non andai a scuola la mattina, ero troppo stravolta. Aspettai per tutta la mattinata una chiamata di Davide che non arrivò. Così, nel primo pomeriggio decisi di chiamarlo e ci accordammo per trovarci mezz’ora dopo alla panchina. Mi misi addosso le prime cose che trovai, mi truccai ed uscii di casa, con grande sorpresa di mia madre: non uscivo dalla mia stanza da più di ventiquattr’ore, nemmeno per andare in bagno e così di punto in bianco andavo fuori casa senza nessun apparente motivo.
Quando arrivai ero in anticipo di almeno un quarto d’ora, ma lui era già lì. Mi sedetti di fianco a lui e, dopo un lungo silenzio, gli feci la domanda che mi tormentava da sabato sera:
- Secondo te finiremo in prigione?
- Penso di no e comunque non ce lo meritiamo. È stato solo uno stupido incidente. – mi rispose guardandomi dritta negli occhi.
- Ma allora non ci converrebbe confessare? Almeno se diciamo la verità non rischiamo tanto.
- Io non voglio finire in galera, nemmeno per cinque minuti.
- Ma se ci sgamano ci rimarremo per vent’anni, invece per un omicidio colposo ti prendi cinque anni al massimo. Alla fine ci rimarremmo per due anni, contando la buona condotta e il fatto che siamo minorenni.
- Anche se non confessiamo la sua morte è avvenuta per sbaglio, quindi gli anni sono sempre gli stessi. – mi rispose con un tono a mezza via tra il sarcastico e l’arrabbiato.
- Sì, ma capisci che se abbiamo sempre raccontato loro palle non ci crederanno quando diremo che l’abbiamo ammazzato per sbaglio, ma supporranno che l’abbiamo ucciso volontariamente. – continuai nel tentativo di convincerlo – Secondo me dovremmo dire come sono andate le cose realmente, rischiamo molto meno.
- No, dobbiamo stare zitti Mary, anche perché sei tu quella messa peggio e che rischia di rimetterci di più. Inoltre fai diciotto anni fra due mesi, quindi per il processo potresti già essere maggiorenne. Io almeno li compio quest’estate ed è improbabile che il processo sia ancora in corso. – mi disse grave Davide.
- E allora confessiamo subito, così non corro il rischio di essere maggiorenne per il processo. – mi alzai e lo presi per mano – Andiamo subito in commissariato e raccontiamo loro la verità!
Si alzò, ma rimase fermo sul posto, nonostante io lo tirassi per la manica nel tentativo di andarcene.
- Davide ti prego, io non voglio rovinarmi la vita per uno stupido incidente! – gli dissi con le lacrime agli occhi – Andiamo, ti prego!
- Dai Mary, non fare così. – mi disse abbracciandomi - Se non vuoi rovinarti la vita, non andare a dire nulla ai poliziotti. Se avessero avuto realmente dei sospetti su di noi, adesso saremmo là da loro ad essere interrogati. Ma non ci siamo, quindi non pensano che siamo stai noi.
- Ma invece l’hanno capito ieri, quando mi sono bloccata e non ho saputo come comportarmi. L’hai visto come mi ha guardata? Come se avesse esaminato la mia mente e leggendo fra i miei ricordi avesse capito che avevo ammazzato Luca.
- Se fosse realmente così ora saresti già in cella. Ma loro non hanno capito assolutamente niente, non hanno capito che siamo stati noi. E noi dobbiamo continuare a non farglielo intuire, dobbiamo recitare bene la nostra parte. Ora loro ti assilleranno di domande perché hanno capito che sei più debole. Ma tu non cederai e dimostrerai loro che sei forte e che con l’omicidio non c’entri nulla. Ok?
Annuii, incapace di frenare le lacrime. Fino a un secondo fa ero assolutamente convinta che avremmo dovuto confessare tutto ciò che avevamo fatto ed ora ero persuasa del contrario, ero certa che non avremmo mai e poi mai detto una parola. Mi sarei fatta un applauso per la mia coerenza, ma ero troppo occupata a disperarmi fra le braccia di Davide.
Fummo interrotti da una chiamata sul mio cellulare: era mia madre.
- Pronto mamma? – risposi.
- Mary, tu e Davide dovete tornare in questura. Hanno bisogno di voi.
Non risposi. Qualunque cosa avessi detto, sarebbe stata una maledizione contro me, Davide, Luca, la polizia e tutta questa dannata vita. Questa volta Davide non aveva avuto ragione nonostante la sua perfezione.


Capitolo 6

Il commissario ci aveva chiamati in centrale per le deposizioni ufficiali. Quando entrammo ci stava già aspettando nella stanza degli interrogatori, appena ci vide ci venne incontro e ci fece accomodare.
Dopo averci fatto alcune domande di cortesia, ci chiese se sapevamo qualcosa riguardo ad un ricatto che Luca stava attuando verso il preside della sua scuola. Io non ne sapevo nulla e nemmeno Davide, deve essere stato uno dei trucchi bastardi che fanno i poliziotti.
Ci chiese poi se eravamo pronti ad iniziare, e partimmo con le domande.
- Dove eravate la sera dell'omicidio, precisamente intorno alle ventitré e trenta?
- Eravamo a casa mia a dormire. - rispose Davide con tono sicuro.
Io mi limitai a fare un piccolo cenno come per dargli ragione, ma avevo le labbra cucite e le mie mani sudavano. Intanto il commissario segnava le risposte che gli fornivano in un taccuino.
Proseguì con le domande:
- Fino a che ora avete detto di essere stati al parco per aspettare Luca?
- Siamo arrivati alle 21, l'ora del ritrovo e abbiamo deciso di andarcene alle ventidue e trenta.- rispose nuovamente Davide.
- Conferma signorina Dall'Igna?- fece il commissario guardandomi dritta negli occhi.
- Si si – risposi con una voce molto incerta e tremante.
Andò avanti con domande di ogni genere riguardanti quella dannata sera. Finché a un certo punto il suo sguardo si fece più serio.
- Confermate tutte le informazioni che state fornendo?- ci domandò con aria sospetta.
- Si - rispondemmo all'unisono riflettendo sul perché di questa diffidenza.
- Mi potreste scrivere il vostro nome e cognome su questo foglio, per cortesia. - ci chiese porgendoci un foglio.
Lo fissammo entrambi con gli occhi sbarrati senza capire il motivo di questa richiesta, tanto che Davide sbottò con tono un po’ troppo sprezzante:
- Le posso chiedere l'utilità di questo?
- Se non vi spiace, attenetevi alle richieste e non discutete. - chiuse il commissario, senza darci nessuna possibilità di replicare.
Scrivemmo i nostri nominativi nel foglio e lo osservammo con aria interrogativa, spiazzata ma soprattutto spaventata . Allora il commissario si mise a spiegare:
- La scientifica ha fatto dei rilevamenti sul luogo del delitto. Nella stradina che conduce al sito dove è stato commesso l’omicidio, piena di fanghiglia a causa della neve caduta, sono state rilevate le orme di tre persone con numeri di scarpe 43, 45, e 38. La taglia della vittima erano un 45 e immagino che le vostre siano un 43 e un 38. Inoltre si notano chiaramente le orme di solo due persone che si allontano. Voi potreste ribattere che sono di tempi differenti le vostre orme e quelle di Luca Cecchetto. Quindi, abbiamo una prova che vi inchioda: vicino al corpo della vittima abbiamo trovato le lettere D.M. scritte dal vostro amico prima che morisse, vi dicono nulla?
Lo guardammo sconvolti senza essere in grado di rispondere. Così lui continuò il suo monologo:
- Sono le iniziali di entrambi i vostri nomi: Maria Dall'Igna e Davide Marin. La vostre informazioni sono chiaramente false e la vostra situazione è alquanto grave. In questo momento un poliziotto sta informando i vostri genitori della vostra situazione e saranno qui a momenti. Nel frattempo è meglio che restiate con le guardie ad attendere il loro arrivo.-
Ci avevano incastrati: quello stronzo di Luca ci aveva fregati alla grande. Sul viso, ma soprattutto nell’animo di entrambi c'era puro terrore. La nostra vita era rovinata.
Le guardie si avvicinarono prima a Davide e, appena cercarono di prenderlo per un braccio, lui si divincolò. Si voltò verso di me e iniziò ad inveirmi contro in preda al panico e con il viso solcato da grosse e pesanti lacrime.
- È tutta colpa tua Mary! Non dovevi colpirlo, sei una stupida! È stata lei io non ho fatto nulla!
Io ero bloccata. Quello che mi stava dicendo il ragazzo di cui ero innamorata, il ragazzo perfetto era inconcepibile. Mi stava distruggendo con quelle parole, ero incapace di fare qualsiasi cosa all’infuori di fissare Davide dritta negli occhi. Perché aveva detto che l’avevo colpito?
Fortunatamente il commissario intervenne:
- Stia calmo sig. Marin. Portatelo via! - ordinò rivolto alle guardie.
Poi continuò guardando me:
- È lei allora la colpevole di questo omicidio?
Ero amareggiata e profondamente delusa dal tradimento di Davide. Inoltre ero terrorizzata dal commissario che mi fissava come se sapesse tutto ciò che era successo quella dannatissima sera. Scoppiai in lacrime e confessai quello che era accaduto al commissario.
- No! Non c’entro! - singhiozzai - Ci eravamo dati appuntamento fuori da quel maledetto parco. Quando Luca era arrivato aveva iniziato a fare lo stupido e a dare fastidio a Davide. Davide non è il tipo che si fa mettere i piedi in testa sicché lo spinse con forza per fargli capire di piantarla...e...e poi Luca è scivolato su quella dannata lastra di ghiaccio ed ha sbattuto la testa contro il muro. È successo tutto così in fretta, ma per sbaglio. È stato tutto uno stupidissimo errore che non doveva succedere, non è giusto. Siamo scappati perché avevamo paura e non avevamo idea di cosa fare. Pensavamo che fosse morto! Del resto non respirava più, che dovevamo fare? - e scoppiai in un pianto disperato mentre il commissario mi fissava. Sembrava quasi intenerito dal mio piccolo show.
- Signorina Dall’Igna, se aveste chiamato aiuto ora lui sarebbe molto probabilmente ancora vivo. E nonostante io creda a quello che mi sta dicendo, come faccio ad essere sicuro che quello che ci sta dicendo non sia una bugia? Può provare che non è stata lei a compiere l’omicidio? – mi domandò con sincera preoccupazione.
Il commissario mi stava credendo: sarebbe bastato ancora un poco e avrei avuto salva la pelle dalla prigione.
- Secondo lei una persona bassa e mingherlina come me sarebbe stata in grado di spingere Luca? Ha visto quanto era alto e ben piazzato? Inoltre prima Davide, ha detto che io avevo colpito Luca, quando non è vero: è stato spinto ed è scivolato. Non c’è nessun segno sul corpo che dimostri che io l’ho colpito, giusto? Perché non è così!
Non erano grandi prove, ma il poliziotto sembrava essere ben disposto nei miei confronti.
- Bene signorina, ora sono costretto a farla portar via dalle guardie. La ringrazio per la collaborazione.
Uscii dalla stanza e fui portata in una cella, da sola. E così rimasi per lungo tempo.

Non vidi più Davide fino al giorno del processo, svoltosi circa due settimane dopo il nostro arresto: il commissario mi aveva presa in simpatia e aveva fatto in modo che il processo si compisse il più in fretta possibile, in modo che fossi ancora minorenne per l’udienza. Davide continuò ad accusare me di essere la colpevole per tutto il periodo prima del processo e anche durante esso.
Quando il giudice della corte dei minori stabilì che a Davide spettavano cinque anni di reclusione con l’accusa di omicidio colposo e omissione di concorso una lacrima mi rigò il volto: l’uomo perfetto non va in prigione e, di certo, non tradisce i propri amici. Capii in quel momento che Davide non era affatto perfetto. Avevo sbagliato ancora una volta.
Dopodiché pronunciò la mia pena: sei mesi per omissione di soccorso. Stop! Avrei voluto andare ad abbracciare il giudice: non mi aveva nemmeno accusata di concorso in omicidio! Solo sei mesi e poi sarei potuta tornare alla mia vita normale.
Lasciai il processo tra due guardie con un mezzo sorriso in volto e un unico pensiero in mente: di certo ero la più grande e la più brava bugiarda al mondo perché Luca l’avevo spinto io, ero stata io ad ucciderlo!


Federica Magnabosco, Matteo Zoppello, Diego Lombarda.