Home Le sventurate avventure di Marco Brambilla A proposito dei laboratori... La mia verità Una vita da sogno

giovedì 28 gennaio 2010

A proposito dei laboratori...




Ecco a voi il nostro secondo racconto intitolato

"A proposito dei laboratori..."

Una storia divertente che speriamo vi faccia sorridere.

Buona lettura!

Gli scrittori_improvvisati


Eccomi seduta sul mio banco di scuola con la testa rannicchiata fra le braccia cercando di combattere il sonno che vuole impadronirsi di me mentre tento di seguire la lezione. Un giorno uguale ad altri mille, ma almeno oggi è sabato e così domani posso riposarmi un po’. Mancano solo due ore alla fine della giornata, perché oggi, dato che l’insegnante di matematica è assente, usciamo un’ora prima del solito. Dopodiché avrò la libertà di godermi il sabato pomeriggio e, addirittura, una domenica intera da mattina a sera.
Cos’ho le prossime due ore? Oh giusto, L.F.C.: Laboratorio Fisica Chimica, una gran bella materia. Se non fosse per le relazioni che dobbiamo scrivere alla fine di ogni esperimento che eseguiamo, cioè una alla settimana in sostanza, sarebbe la mia materia preferita. Non stare con la testa china sul libro, ma poterti muovere per la stanza è una gran bella sensazione dopo una settimana che non fai altro che star coricata, il più comodamente possibile, su una scomoda sedia di legno. Certo, anche durante le ore di L.F.C. appena fai qualcosa che non va (e a volte anche quando non fai proprio nulla di sbagliato) il professore ti sbraita contro, ma questo è un atteggiamento adottato dalla maggior parte degli insegnanti.
Finalmente suona la campanella che segna l’inizio della terza ora ed io e la mia classe ci alziamo dai banchi dell’aula situata nell’angolo più remoto della scuola, l’aula di confine D1D4. Dobbiamo andare più o meno dall’altra parte della scuola, al laboratorio di fisica. Una stanza piena di marchingegni che guardano storto le persone dall’interno delle loro belle teche, non di cristallo ma di vetro.
Considerando il divieto di entrare nei laboratori con gli zaini, li abbandoniamo con i giacconi su uno scaffale poco fuori dal laboratorio. Appena entriamo dotati di quaderno, astuccio e calcolatrice ci dirigiamo verso le postazioni. Non ci sono veri e propri banchi, ma quattro tavoli di forma ottagonale con al centro una specie di torretta ed alcune prese della corrente.
Ogni gruppo ha assegnato il proprio bancone e non può assolutamente e per nessun motivo al mondo cambiare posto. La maggior parte delle volte ci sediamo attorno a questi tavoli solo appena entrati, perché per tutto il resto della lezione rimaniamo in piedi, per motivi di sicurezza dice l’insegnante. Ci sono anche altri due tavoli sui quali si trovano le rotaie che servono per gli esperimenti riguardanti il moto dei corpi.
Subito dopo esserci seduti la familiare voce dell’insegnante di laboratorio ci invita gentilmente ad alzarci e a seguirlo.
- Forsa popolo, oncò ‘ndemo in che l’altro laboratorio, che ne serve i bunsen ( ndr: una specie di fornelletto a gas che usiamo in laboratorio) – ci comunica in stretto dialetto veneto il prof che ama usare questo idioma quando è di buon umore.
A queste parole lancio ingiurie a destra e a manca: ho dimenticato il maledettissimo camice. Per entrare in laboratorio di chimica è obbligatoriamente indispensabile questa veste, molto simile a quella che indossano gli scienziati pazzi! Certo, le prime volte che lo indossi ti fa sentire la persona più qualificata ed intelligente del mondo, ma ci si stanca facilmente.
- Non serve il camice, popolo! – si affretta a precisare, seguito da un sospiro generale della classe.
Lo seguiamo sentendoci parte viva ed integrante della transumanza, la nostra personale migrazione in scala ridotta verso il laboratorio di chimica, distante un paio di metri da dove ci trovavamo prima.
Appena entrati ci sediamo sugli sgabelli e il professore ci chiede le relazioni sull’esperimento della settimana scorsa. Ci chiama alla cattedra uno alla volta in ordine alfabetico, così che nessuno riesca a scamparla. Arriva il mio turno e durante il tragitto verso la cattedra prego tutti gli dei dell’Olimpo, del Paradiso, del Nirvana e anche Xenu con tutta la sua Confederazione Galattica affinché non mi corregga la relazione, perché l’ho fatta proprio male. Intanto mi autoconvinco che non può correggermela:
“Mi ha già dato il voto sulle due precedenti e non può voler vedere anche questa, tanto più che ad alcuni miei compagni non ne ha corretta nemmeno una. No no dai, non me la corregge”.
Prima ancora di aver formulato tutti questi pensieri sono davanti alla cattedra e poso la mia relazione sulla pila, sorridendo al professore nel tentativo di corromperlo.
Dopo essere ritornata al posto sento la voce di una mia compagna:
- Professore io l’ho dimenticata a casa. Ma gliela porto lunedì!
- Pensi tu di fregarmi, ma lo so bene che non l’hai mica fatta la relazione, anche se dici di averla solamente dimenticata. – dice il professore con l’aria di chi la sa lunga, un po’ parlottando tra sé e sé e un po’ rispondendo alla ragazza – Guarda che voglio vederla lunedì nel mio cassetto e se alle otto non c’è, ti caccio un due nel registro! – concluse un po’ alterato con gli occhi fuori dalle orbite
- Va bene professore!
Questa settimana per fortuna non ci sono relazioni corrette da consegnare corrette, perché due settimane prima l’insegnante di fisica aveva spiegato teoria.
Infatti, quando siamo in laboratorio, sono presenti due docenti: il professore di fisica, con il quale facciamo altre ore in classe, e il professore di laboratorio. Ma i laboratori sono terreno di quest’ultimo e quello di fisica deve stare bene attento a non invadere il suo spazio, perciò se ne sta più che altro in silenzio in un angolo. In realtà il professore di fisica è essenziale per noi poveri studentelli: l’insegnante di laboratorio spiega le cose sommariamente, con la speranza che noi riusciamo a capire le cose senza che ci vengano spiegate nei dettagli. Così, puntualmente ad ogni esperimento, appena ci rendiamo conto di non aver capito nulla di quello che ci ha appena spiegato in preparazione all’esperimento, andiamo ad elemosinare spiegazioni dall’insegnante di fisica che ce le fornisce in modo chiaro e conciso.
- Carta e penna! … E zitti! – ci comanda il professore di laboratorio.
Questo è il segnale che attendiamo ogni settimana perché indica l’inizio dell’esperimento: ripete questa formula ogni volta!
Ascoltiamo la spiegazione di quello che dobbiamo fare oggi: la verifica di una qualche legge che non ho ben capito. Mando il mio compagno a prendere l’attrezzatura e intanto inizio a rimuginare su quello che dobbiamo fare. Dopo aver preso tutto il necessario, iniziamo l’esperimento.
Mettiamo un po’ d’acqua distillata in questo becker, un po’ di qualche strano sale blu nell’altro e il gioco è fatto! Ora dobbiamo far bollire l’acqua, come mi comunicano gli appunti che ho preso prima durante la spiegazione, usando il bunsen!
Per accenderlo chiamiamo il nostro amatissimo, egregio, cavalier, assistente, appartenente al personale ATA tecnico di laboratorio: un omaccione alto e robusto con capelli e occhi chiari, l’unico che può permettersi di varcare il territorio dell’insegnante. Viene lì con un accendino e riesce a compiere quegli ardui procedimenti necessari per accendere la fiamma del bunsen. Lo ringraziamo e se ne va ad aiutare un altro gruppo.
Noi intanto aspettiamo che l’acqua bolla parlando e giochicchiando. Per questo veniamo colpiti dagli sguardi trafiggenti del professore di laboratorio che, nel passare, sfiora il becker dove l’acqua sta bollendo mancandolo di un centimetro al massimo, con il rischio di rovesciare tutto a terra.
Finalmente l’acqua bolle e possiamo finire in tempo l’esperimento giusti per la merenda. Esco fuori a prendere un po’ d’aria con la mia compagna che mi parla di qualcosa, ma non la sto ascoltando perché ho un pensiero fisso in mente: ho chiuso il gas del bunsen?
Chiedo alla mia compagna di seguirmi dentro per controllare e trovo che la fiamma sta ancora ardendo. Maledico me stessa e tutti i membri del mio gruppo per essere stati così scemi da averla lasciata accesa: se il professore di laboratorio avesse notato che, non solo avevamo finito si usare il bunsen senza poi spegnerlo, ma eravamo pure usciti a fare merenda, le possibili soluzioni potrebbero essere una bella nota sul registro e probabilmente anche un piacevole due in fisica, giusto per la consegna delle pagelle.
- Okay, ora tu sai come si spegne vero? Da che parte bisogna girare la manopola del gas? – chiedo alla mia compagna.
- Certo che sei proprio ignorante. È ovvio che si gira in questo senso, lo sa chiunque! – mi risponde canzonandomi.
- Bene, fallo tu allora visto che sei così intelligente. – le ordino stizzita.
Così lei gira la manopola tutta d’un colpo, ma dalla parte sbagliata! La fiamma si alza a tal punto che le arriva ai capelli, infiammandoli leggermente. La puzza mi penetra dritta nei polmoni, facendomi tossire. Corro a spegnere il bunsen, girando la manopola nel senso opposto. Lei mi chiede aiuto per spegnere i capelli, ma io non ho idea di che fare perché sono spaventata dal fuoco che mi ha fatto paura fin dalla nascita. Nessuna delle due urla: siamo coscienti che se urlassimo entrerebbero i professori e se vedessero lo stato in cui siamo, rimarremmo segnate a vita.
Intanto una porzione sempre più estesa di capelli si sta incendiando! Le dico di togliersi la felpa e di fare pressione sui capelli per provare a spegnere la fiamma. Mi ascolta e aprendo in un lampo la zip inizia a premersi la felpa sui capelli. Non succede nulla, la situazione non migliora.
Il fuoco mi spaventa: mi fa paura tutto di lui, il suo colore, il suo calore, soprattutto la sua potenza distruttiva e la facilità con cui aggredisce ogni cosa che trova. Ma è colpa mia se ora i suoi capelli sono incendiati, così mando a quel paese tutto e le dico di lasciar fare a me. La mia mente è gonfia dell’obiettivo di spegnere questo dannato fuoco, occupa ogni minimo posto del mio cervello tanto da oscurare la mia paura.
Riesco a smorzare un po’ la vampa, ma un calore atroce mi permette di accorgermi che anche la giacca della mia amica ha preso fuoco. Impaurita, la getto a terra e inizio a pestarla con violenza, spegnendola in un istante. Se solo potessi prendere a calci anche quella testolina vuota della mia compagna per spegnere le fiamme!
Mi volto in cerca di un qualcosa che mi possa aiutare nella mia impresa e vedo i becker contenenti l’acqua dell’esperimento. Ne prendo uno: è ancora un po’ caldo, ma di certo non abbastanza bollente da farle male. Vado verso di lei e penso a cosa c’è dentro: niente alcol, niente di strano, solo acqua distillata e i sali… Mi viene il dubbio che i sali magari potrebbero avere qualche strana reazione col fuoco, anche se in realtà non ne ho la più pallida idea. Per non rischiare, meglio che butti tutto nel lavandino e riempia il contenitore con dell’acqua acqua di rubinetto.
Ma quei maledetti granelli non vogliono decidersi a staccarsi dal fondo. Intanto lei cerca di spegnere il fuoco con la sua felpa. Ormai la mia compagna ha la testa in fiamme da un minuto, se non mi do una mossa quella ci rimette le cervella e rimango in carcere a vita per omicidio. Finalmente vengono via quasi tutti i granelli dal fondo del becker in modo che riesco a riempirlo d’acqua pulita da rovesciarla in testa alla mia compagna.
- Stai attenta a bagnarmi i capelli il meno possibile che altrimenti poi il prof ci mette una nota se entriamo così in classe. – mi ricorda la mia compagna.
- Beh, la nota la mette a te, perché io non ho i capelli totalmente bagnati!
- La mette anche a te se gli dico che ti sei messa a giocare in bagno con l’acqua. – mi fa notare. Ero fregata.
- Vabbè stai zitta che è un miracolo che non ci abbiano ancora sgamate. Dai, metti la testa nel lavandino. – la incito.
Mi tremano le mani, un po’ per il peso del contenitore e un po’ perché le lingue di fuoco sono a pochi centimetri da me, pronte ad assalirmi. Devo sbrigarmi, o qui ne usciamo tutte e due con una espulsione a vita dalla scuola. Inizio a versare l’acqua sulle fiamme, con una precisione che non mi si addice. Prima verso solo un rivoletto d’acqua, poi un po’ di più man mano che comincio a fidarmi. Si sta spegnendo, i suoi capelli si stanno spegnendo! Continuo a versare fino a quando non c’è più acqua nel contenitore, ma ora anche il fuoco non c’è più. Sono riuscita a sconfiggerlo!
Corro ad aprire le finestre in fondo all’aula con la speranza che un po’ del tanfo di bruciato se ne esca e, dopo aver preso la felpa carbonizzata, esco dal laboratorio con la mia compagna. L’insegnante di laboratorio è a pochi metri da noi, a parlare con i tecnici. Dobbiamo andare nei bagni vicino al laboratorio di scienze per non passargli davanti, così ci avviamo. Ogni persona alla quale passiamo vicino ci guarda malissimo, di certo per gli spiacevoli odori emanati dai capelli bruciati. Perché guardandola non si nota nulla di strano, solo esaminando molto attentamente si vede che la sua chioma è rovinata.
L’accompagno in bagno perché si controlli e le dico di rimanere lì per almeno cinque minuti dopo il suono della campana e di passarsi un po’ di sapone sui capelli per nascondere la puzza. Almeno non protesta, così me ne vado e torno verso il laboratorio, quando suona la campanella.
Il professore non si accorge di nulla per grazia di Dio e passo l’ora a bighellonare con la mia compagna. Per fortuna i capelli non sono poi così danneggiati, basta una visita al parrucchiere! Certo non si può dire altrettanto della sua giacca.
Ecco l’attesissimo suono della campanella che ci dice che possiamo andare a casa. Certo, questo episodio non ce lo dimenticheremo tanto facilmente, ma almeno ho capito che ogni tanto i professori ne dicono qualcuna di giusta: non lasciare mai un bunsen acceso dopo aver finito l’esperimento!


Federica Magnabosco, Matteo Zoppello, Diego Lombarda.

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